COMACCHIO. INTENSITÀ SOFFUSA

Chi ama realmente le parole è forse colui che sempre più spesso le sente mancare, consapevole di quella loro limitatezza che le rende piccole e inadeguate, talvolta addirittura imbranate o zoppe, di fronte alla potenza delle emozioni. Ciò che ci colpisce ha spesso dei tratti quasi irrazionali nel suo accadimento, indefinibile nel suo motivo di essere, ma forse è proprio per questa sua eccezionalità che merita il tentativo della parola, sempre.
Descrivere il tepore del sole sulla pelle, nelle ore del tramonto, camminando sui tratturi che tracciano i profili delle Valli di Comacchio, è difficile. Esattamente come lo è raccontare dei ponti che affiorano su uno sfondo fatto di cielo e che si sdoppiano nel riflesso dei canali. Perché lì, a Comacchio, quello che si respira ancor più del soffio salmastro è un’aria tiepida, che conforta la pelle con il calore dell’accoglienza.

Gli scorci della quotidianità di Comacchio regalano la bellezza della solarità che si mescola ad una sorta di quiete, dove si percepisce a sensazioni nette una familiarità fra tutti gli elementi che la compongono. Quella di Comacchio è una familiarità che trapela dalle chiacchiere che si diffondono nel centro, così come dai cenni scambiati fra i passanti nei vicoli. È una familiarità in cui persino l’abitudine pare essersi spogliata della noia, in favore della vita che accade, dentro la cornice di quei ponti, di quelle case e di quel sole energico.
Energico, sì, perché la vitalità di questa terra troverà sempre il modo di esprimersi, attraverso le sue innumerevoli e attraenti forme. Una di esse è certamente il fotogramma enogastronomico, che riporta in modo del tutto naturale alla schiettezza della sua anima. Ecco perché una cena pensata e realizzata da qualcuno che questa terra ce l’ha talmente tanto nel sangue da non avere il timore di perderla uscendo dai suoi confini, è una delle esperienze più vere che si possano vivere in questo piccolo scrigno cullato dalle acque.

E sono proprio le acque a imprimere la propria firma ai prodotti gastronomici locali. Sono acque di varia natura, che sanno regalare alle tavole comacchiesi un pantone di sapori dalla timbrica sensibilmente differente, offrendo la sapidità suadente dell’ostrica e la ricchezza di una capasanta cruda, passando per la cremosità del gambero e la delicatezza dei carpacci. Per poi culminare nell’esaltazione vigorosa e decisamente unica del prodotto portabandiera, l’anguilla, nota qui, come la Regina delle Valli. L’intensità del sole di Comacchio non poteva certo legarsi a qualcosa che fosse meno di lui e, probabilmente proprio per questo, è stata l’anguilla ad essere la prescelta di questa terra. Un pesce grasso, dal sapore intenso, avvolgente, che ben si presta ad essere scortato dalla fine nota amara della cottura alla brace e che nel risotto mostra il lato più elegante di sé. Nella preparazione di tale piatto secondo la “vecchia maniera” infatti è la polpa dell’anguilla cotta e frullata a fare da mantecatura.

Un pesce, l’anguilla, che chiama l’abbinamento con vini dalle acidità rustiche, dritte, senza compromessi. Come il caso del Fortana, vitigno vocato alla briosità della bolla, e, forse ancor di più, della Russiola. Si tratta di un vitigno autoctono del comacchiese che, presentando il pigmento nella polpa dell’acino, dà origine a vini rosati. Rimasto oggi ad una manciata di piante, è orgogliosamente portato avanti dalla tenuta Ca Nova, che grazie a tali uve fa vivere l’etichetta L’Ursiola. Un vino dal profilo olfattivo fruttato e piacevole, che di primo acchito parrebbe essere beverino, compiacente, quasi accondiscendente. Ma in questa terra nulla è così. Qui la convivialità passa attraverso la genuinità rustica e calorosa della sostanza, che si palesa con i capelli scompigliati e le braccia aperte, ben fiera del suo bellissimo essere. La Russiola ammalia il palato proprio per quel suo timbro acido, forte, teneramente rude, coinvolgente grazie a una franchezza che risuona come qualcosa di vero, di reale. Come tutto, del resto, qui.

Esistono certi posti che, in qualche strano e incomprensibile modo, chiamano in causa un lato più o meno nascosto della propria sensibilità, attraendo l’occhio fino alla coda, fino a quando la vista si perde nell’allontanarsi da essi. E quello è il momento in cui la possibilità di cogliere le immagini viene delegata a un altro senso, più complesso e più longevo. Perché se è vero che tutti i posti meritano di essere visti, è vero anche che ce ne sono alcuni che vale la pena di stare a guardare.