CARTHAGO. IL MITO IMMORTALE

Corrotto, infido, traditore, crudele: così i romani consideravano il popolo fenicio, deriso e disprezzato forse perché percepito come straniero enigmatico e temibile nemico commerciale e strategico. In effetti sono stati soprattutto gli autori latini ad informarci sulla civiltà cartaginese e a trasmettere una visione fortemente condizionata da una rivalità brutale che ha portato nel tempo ad uno scontro definitivo. Se la Roma vincitrice ha raccontato questo tratto di storia seguendo il proprio punto di vista, da tempo la ricerca scientifica è intervenuta attraverso un paziente lavoro archeologico e filologico, per restituire voce autonoma alla cultura di Cartagine avviando anche un’attenta riflessione sugli stereotipi al fine di una loro comprensione e quindi del loro definitivo superamento.

Pendente raffigurante occhio di Horo Oro. Dimensioni: 1,4 x 1,7 cm Da Cartagine V sec. a.C. Cartagine, Museo Nazionale

A narrare in modo nuovo la città fondata dai Fenici nel II millennio a.C., la mostra “Carthago. Il mito immortale” allestita nella capitale fino al 29 marzo 2020 nei monumentali spazi del Colosseo e del Foro Romano, nel tempio di Romolo e nella Rampa imperiale, con oltre quattrocento reperti (tra cui maschere, gioielli, statuette, uova di struzzo, mosaici e oggetti quotidiani) provenienti dalle più prestigiose istituzioni museali italiane e straniere.

Il percorso espositivo si apre con la ricostruzione del temibile dio Moloch del film Cabiria sceneggiato da Gabriele D’Annunzio nel 1914 quasi ad ammonire il visitatore: guai a deridere i Fenici come fece il commediografo Plauto che li apostrofò quali pultiphagonides, “mangiatori di pappa”, alludendo alla povertà della cucina cartaginese che contemplava solo pappette semiliquide e poco vino di pessima qualità. Nulla di più sbagliato: le anfore di produzione cartaginese e iberica esposte al Colosseo fanno immaginare rumorosi magazzini stipati e navi cariche di giare destinate al commercio di conserve di pesce, di frutti di mare, di carni riservate alle classi sociali più elevate, di olio e soprattutto di vino.

Maschera ghignante Argilla. Dimensioni: 20 x 15cm Da Mozia, tofet, favissa centrale VI secolo a.C. Mozia, Museo G. Whitaker. © SABAP Trapani

Già perché Cartagine e il mondo fenicio erano noti nell’antichità proprio per la fiorente produzione di vino tanto che Platone anticipa in un passo, su cui gli studiosi stanno ancora riflettendo, che i Cartaginesi si munirono di una apposita legge che ne regolava il consumo, limitandolo solo ad occasioni speciali, come banchetti e cerimonie religiose.

Ma non si può comprendere l’importanza del vino nella società cartaginese se non si analizza il contesto della madrepatria, la Fenicia, come suggerisce Massimo Cultraro, archeologo e primo ricercatore presso l’Istituto di Scienze per il Patrimonio Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

L’ampia fascia costiera, oggi corrispondente alla zona tra la valle del fiume Oronte in Siria sino al moderno Stato d’Israele” osserva Cultraro “era nota per la ricchezza di vigneti e di diverse varietà di vini. In contesti dell’antica età del Bronzo Antico della Palestina (metà del IV millennio a.C.) è attestata la presenza di vitis vinifera, come indicano i resti archeobotanici rinvenuti in numerosi insediamenti. Ancora nel Tardo Bronzo (fine II millennio a.C.) ad Ugarit e Biblo sono documentati impianti per la lavorazione del vino, con presse e vasche di raccolta”.

Aryballos Vetro. Dimensioni: h 5 cm Ibiza, necropoli di Puig des Molins fine V – inizio IV sec. a.C. Ibiza, Museo Archeologico di Ibiza e Formentera

Le fonti egizie di questo periodo narrano che al tempo della spedizione di Thutmosis III in Palestina le armate attraversassero vallate nelle quali il vino scorreva come acqua nei torchi. Gli Egizi, come ricorda l’archeologo del Cnr, importavano vino dalla terra di Canaan: una particolare categoria di anfore, le cananee, ne sono una straordinaria testimonianza essendo state rinvenute nei principali palazzi imperiali della XVIII Dinastia a Tell el Amarna e a Tell el Daba nel Delta del Nilo.

Anche nel celebre racconto del mercante Sinuhe, la terra di Yaa – nome con cui si indicava la Fenicia- era descritta come rigogliosa di vigneti. Più tardi, nell’VIII secolo a.C., il regno di Assiria importava da Canaan notevoli quantità di vino, bevanda celebrata nei rilievi dei palazzi di Khorsabad e di Ninive, dove questa regione appare descritta iconograficamente con grappoli d’uva e vigneti.

I dati archeologici, comunque, non fanno che supportare la tradizione biblica che celebrava la zona come un grande e rigoglioso vigneto. L’introduzione della vite risale a Noè, ma recenti studi filologici ipotizzano un nucleo di un’antica tradizione mitologica sumerica, nella quale Noè presenta tratti assai comuni al dio eroe El.

Scarabeo con Iside e Horo montato in oro Oro e corniola. Dimensioni: 3,5 cm di largh. Da Cartagine V – VI sec. a.C. Cartagine, Museo Nazionale

Mosè aveva inviato esploratori nella terra di Canaan, i quali gli riferirono della Valle di Eshkol, valle dei grappoli in ebraico, dove le colline erano fitte distese di vigneti. Altri passi dell’Antico Testamento menzionano il sistema di impianto dei vigneti, che generalmente erano disposti lungo i pendii di colline e su terrazze ad aggere di pietre. Ogni vigneto era delimitato da siepi o muretti, mentre una torre a due piani garantiva la sicurezza del podere. La parte inferiore della torre era adibita a magazzino, quella superiore garantiva il controllo del vigneto assicurando anche un rifugio in caso di pericolo.

Ancora in epoca arcaica Erodoto celebrava il “vino di Sidone”. Cultraro ricorda che Il frammento di una brocchetta rinvenuta nel santuario rupestre di Grotta regina a Monte Gallo, presso Palermo, riferibile al III-II secolo a.C., riporta il nome di un “vino scuro di Sidone”. La stessa espressione, che ovviamente si riferisce al colore corpulento del liquido, si ripete in alcune iscrizioni in aramaico dalla Siria di età ellenistica.

Collana con vaghi e amuleti. Provenienza sconosciuta. Oro, corniola, pasta vitrea e pasta silicea; lungh. 62 cm. Età punica. Cartagine, Museo Nazionale

Più complessa è la questione della circolazione del vino fenicio nel Mediterraneo occidentale, area per la quale manca ad oggi uno studio sistematico e globale. In area iberica autori come Varrone e Strabone elogiavano il vino locale prodotto prima dell’arrivo dei Romani. In questo caso l’archeologia ci viene in soccorso perché recentemente è stato scoperto a Dénia, nel distretto di Alicante, un impianto per la produzione del vino, con ambienti dotati di presse e grandi vasche di decantazione. Il complesso, databile tra l’VIII e il VI secolo a.C., è uno dei più antichi noti in Occidente e si riferisce ad un sistema di vinificazione di tipo orientale introdotto tra le popolazioni indigene dell’Iberia. Sorprendono le numerose vasche, una delle quali contenente ancora oltre 7.000 vinaccioli, che aveva la capacità di conservare circa 700 litri di vino. Si è stimato che l’intero complesso, nella fase più intensa di utilizzo, fosse in grado di produrre circa 2500 litri di vino.

Tessera ospitale a forma di felino con iscrizione etrusca. Avorio. Dimensioni: h 4 cm. Dal Foro Boario, area sacra di S. Omobono (Roma). Copia di età moderna (originale della metà VI sec. a.C.). Roma, Musei Capitolini © Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali / Archivio fotografico dei Musei Capitolini

Anche la colonizzazione fenicia della Sardegna deve aver prodotto medesimi risultati. Alcune tra le più antiche tombe di Nora contenevano piccole brocche destinate alla conservazione del vino secondo un sistema di composizione dei corredi che si ritrovano anche a Palermo e a Mozia. Sia in Sardegna che in Sicilia, ma anche presso le comunità della Spagna e del Portogallo, il vino risultava una bevanda preziosa in genere destinata a personaggi di rango elevato.

Proseguendo nel suo appassionante viaggio nel tempo, Massimo Cultraro ricorda come le descrizioni di Cartagine prima della sua distruzione narrassero di numerosi vigneti con torrette di avvistamento che si estendevano lungo le colline nell’immediato entroterra, a poca distanza dalla costa. La medesima descrizione si conserva nel racconto della spedizione dell’esercito siracusano di Agatocle nel 310 a.C., in marcia verso la città: quali Greci d’Occidente rimasero colpiti dai rigogliosi vigneti e dall’eccellente vino che nulla aveva da invidiare a quello prodotto in Sicilia.

Scatola per cosmetici a forma di anatra. Da Kamid el-Loz. Avorio; 5,6x6x16,1 cm. Bronzo Tardo (ca. 1550-1200 a.C.). Beirut, Museo Nazionale

Sul vino di Cartagine, tuttavia, non tutti erano concordi. Ad esempio Plinio lo lodava e ricordava che il segreto stava nell’aggiunta di calce che ne stemperava l’acidità, garantendone una lunga e discreta conservazione. Altri, coltivando la critica latina, salvavano solo il vino di Sidone e una varietà chiamata dai Romani passum, realizzata secondo una ricetta tramandata dal cartaginese Magone e forse assimilabile ad uno dei nostri vini liquorosi, come i passiti, che ne conservano ancora il nome. Tra le fondazioni di Cartagine Erodoto ricorda la colonia nell’isola di Cyraunis (forse la moderna Kerkenna) nota per la sua produzione di vino, mentre in epoca romana Lixus, sulla costa atlantica del Marocco, coniava monete con l’effige del grappolo d’uva.

Se dunque i libri di scuola ci hanno raccontato dei Fenici quali precursori della navigazione astrale, raffinati artigiani famosi per la produzione della porpora, abili commercianti ed inventori -stando alle fonti letterarie antiche- dell’alfabeto, la testimonianza di Massimo Cultraro e la mostra al Colosseo suggeriscono di allargare la nostra mappa culturale: l’antico popolo mediterraneo ha fornito a tutto il mondo occidentale strumenti e conoscenze anche nel campo della viticoltura di cui oggi abbiamo mantenuto memoria. Altro che pultiphagonides.

 

 

Carthago

Il mito immortale

 

27 settembre 2019/29 marzo 2020

 

 

Colosseo – Foro Romano

Roma

ideazione Alfonsina Russo

a cura di Alfonsina Russo Francesca Guarneri Paolo Xella José Ángel Zamora López con Martina Almonte e Federica Rinaldi

promossa da Parco archeologico del Colosseo

organizzazione e catalogo Electa

 

 

parcocolosseo.it

 

Cover: Ricostruzione virtuale di Cartagine, porto commercial e tophet, 150 a.C. © Punto Rec Studios