COTOLETTA ALLA BOLOGNESE, ABBINAMENTI “PETRONIANI”
Il pranzo che si tenne nella sede del Resto del Carlino di Bologna, nell’aprile del 1901, per celebrare la Canzone composta da Gabriele D’Annunzio in onore di Garibaldi, fu anche un tentativo per pacificare Carducci e D’Annunzio, che a tavola vennero fatti accomodare uno accanto all’altro. I due poeti terranno viva la tavolata con qualche battuta, senza arretrare dalle rispettive posizioni e mentre venivano servite le portate D’Annunzio che da sempre si professava “acquatile” inneggiò a un brindisi a base di semplice acqua per punzecchiare Carducci, il quale replicò fiero alzando un calice dell’amato Lambrusco. Di quell’evento di cui parlarono tutti i quotidiani ci rimane memoria nel ricco menù, in cui si attesta la successione dei piatti: “mortadella, culatello, cappelletti in brodo, cotolette alla bolognese con tartufi, capponi arrosto e naturalmente Lambrusco, ma anche Gattinara 1894 e Chianti”.
Già, la cotoletta alla Bolognese o “Petroniana”, dal nome del patrono di Bologna Petronio (ottavo vescovo della città tra il 431 e il 449), una prelibatezza che si distingue dalla “Milanese” per l’assenza di osso, per il minor spessore della fettina di carne e per un’esecuzione più elaborata: che tripudio di sapori, che opulenza, che equilibrio, un’altalena di sensazioni forti che entusiasmano oggi come oltre un secolo fa. Lo sapeva bene Pellegrino Artusi che dedica a questo piatto iconico della cucina bolognese quasi una pagina nella sua bibbia gastronomica, descrivendone accuratamente la scelta degli ingredienti e la preparazione. Artusi, che come sappiamo faceva cucinare le ricette che gli inviavano da ogni parte d’Italia dalla fida cuoca Marietta e, se passavano il vaglio, le inseriva nel suo volume pubblicato nel 1891 e nelle successive edizioni aggiornate, consiglia di scegliere carne di vitello da latte, utilizzando sotto-noce, oppure il magro del resto della coscia o del culaccio, tagliato a fette sottili grandi come il palmo di una mano, battendole e lasciandole a marinare un paio d’ore con agro di limone, pepe, sale e Parmigiano grattugiato, dopodiché suggerisce di lasciarle il medesimo tempo a bagno nell’uovo sbattuto, per poi panarle con pangrattato fine, facendole soffriggere con il burro da entrambe le parti, in una pentola di rame. A questo punto aggiunge il brodo, ponendovi sopra una dose cospicua di Parmigiano grattugiato e fette sottili di prosciutto crudo, insieme a una generosa dose di tartufo bianco degli Appennini Bolognesi. Un procedimento a cui in tempi più recenti si è aggiunto un passaggio in forno con un poco di concentrato di pomodoro.
L’antica ricetta Bolognese, che si ritiene risalga al ‘600, quando era già utilizzata nelle tavole aristocratiche, per sancirne la paternità, è stata depositata dall’Accademia italiana della cucina presso la Camera di Commercio della città delle Due Torri, il 14 ottobre 2004. Poi ci sono gli chef del capoluogo bolognese, i veri alfieri della cucina locale, a cui si deve la diffusione planetaria della ricetta, del resto oggi chi frigge più a casa? Ognuno ha un suo segreto perché la cotoletta sia in linea con la tradizione e perché riesca al meglio, ognuno è fiero della propria interpretazione, più o meno ortodossa, cucinata con tutta l’attenzione che si deve a uno dei piatti simbolo della città. Una cosa è certa, gli chef sono stati fondamentali nel far conoscere la cotoletta alla bolognese, insieme ai tortellini, a tutti i grandi che in questi secoli hanno vissuto o sono passati dalla città delle Due Torri, da Torquato Tasso, a Francesco Petrarca, da Giovanni Pascoli a Giosuè Carducci, da Giorgio Morandi a Guglielmo Marconi, da Alfred Hitchcock a John Grisham, da Pier Paolo Pasolini a Giorgio Armani, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Francesco Guccini. E noi per conoscere meglio questo piatto, siamo andati da Carlo Alberto Borsarini patron del ristorante Lumira di Castelfranco Emilia e da Fabio Berti della Trattoria Bertozzi di Bologna, che hanno risposto alle nostre domande e l’hanno cucinata.
Cosa rappresenta per voi la cotoletta alla bolognese? “Credo che per molti di noi sia un piatto di casa, ma ne esistono alcune versioni” racconta Borsarini “io nel mio menù propongo abitualmente la cotoletta con i piselli, nel bolognese chiamata ‘cotoletta con l’arvaia’, un termine dialettale a cui sono molto affezionato, ‘arvaia’ significa ‘piselli’ e identifica probabilmente una delle più antiche versioni di questo piatto. Mi accorgo di aver esaudito un desiderio del mio cliente, quando vedo i suoi occhi e la sua espressione di soddisfazione, accompagnata sempre e comunque dall’affermazione: ‘è uguale a quella che faceva mia nonna’. La genesi di questa ricetta affonda senza dubbio nella cucina di casa, in quelle famiglie numerose, dove non si buttava via nulla e nulla era lasciato al caso, si aveva a disposizione un filone di maiale o qualche altra parte meno pregiata e si cucinava tutto, non c’erano i frigoriferi, si friggevano un buon numero di cotolette che sarebbero durate giorni, per gustarle dorate appena fritte, ma si mettevano anche nel panino, se non si aveva a disposizione la tavola, poi per la sera e il giorno dopo si cucinavano in umido con una salsa di pomodoro e piselli cotta a parte. La carne scelta è il lombo o filone di maiale, ma anche lombo, fesa o costola di vitello, rigorosamente senza osso, che poi viene panata con uovo, Parmigiano, pane grattato, senza sale perché dopo non gonfia, facendo attenzione di schiacciarla bene perché non si separi la panatura dalla carne. Qualcuno ripete l’operazione due volte, perché venga una crosta più croccante e piatta, io la preferisco con le bolle, che cresca, simile a una frittata. Per la frittura oggi usiamo l’olio di semi di arachidi, otteniamo la doratura necessaria e la scoliamo, nella cotoletta con l’arvaia, metto pomodoro, burro, brodo e piselli”.
Ricette che affondano la loro storia nella cucina rurale e in quella di casa, quando si poneva al primo posto quell’economia del buon senso e del non spreco, di cui negli ultimi decenni ci siamo un po’ dimenticati. “E’ un piatto che si origina dal recupero delle cotolette cucinate a mezzogiorno con lo strutto” racconta Berti “ma che alla sera aggiungendo un umido di pomodoro e piselli era ancora più buono, poi sbarca nei ristoranti e diventa più elegante e snob, ma senza rinunciare a quella opulenza che si ritrova in molti piatti della cucina bolognese. Io, ad esempio, al vitello della ricetta tradizionale preferisco la carne di maiale, come facevamo al Diana di via Indipendenza dove ho lavorato, la trovo più adatta. La qualità delle materie deve essere al primo posto, utilizzando ingredienti ‘buoni’ verrà un piatto ‘buono’. Dopo la panatura senza sale, perché la parte sapida la prenderà dopo con parmigiano e prosciutto e dopo aver portato a doratura la cotoletta, la copro interamente con il prosciutto crudo 24 mesi, stando attendo a non uscire dal bordo, aggiungendo infine abbondante Parmigiano grattugiato 30 mesi. Alcuni la finiscono con un goccio di pomodoro e un ciuffettino di spinaci, retaggio degli anni Settanta”.
E ora i vini. È un piatto succulento, goloso, ricco, sapido, che ognuno di noi si potrà divertire ad abbinare al calice che più gli piace osando un po’. Ho pensato a questi tre vini che credo valorizzino al meglio l’incontro fra piatto e vino:
Abbinamento Cotoletta alla bolognese con prosciutto e Parmigiano
SPUMANTE METODO CLASSICO DOSAGGIO ZERO VERTICAL 2009 CASA CATERINA
A Monticelli Brusati, una famiglia di origini contadine che risale al XII secolo e oggi prosegue con i fratelli Aurelio ed Emilio Del Bono, a cui si deve una filosofia produttiva che si distingue per rigore e scelte controcorrente, a partire dalla decisione di non aderire al Consorzio Franciacorta, rinunciando alla Docg. Un unicum nel territorio, in un’area vitata inferiore ai 10 ettari, con una produzione di 30.000 bottiglie che si ispira alle pratiche biodinamiche e dedica a bollicine con dosaggio zero e lunghi affinamenti sui lieviti che arrivano oltre i dieci anni, buona parte delle proprie risorse, con risultati straordinari. Tra le bollicine di pregio in produzione, il Vertical, un metodo classico a base di solo Chardonnay, senza liqueur d’expedition, che rimane sui lieviti per 120 mesi e caratterizza un interessante profilo olfattivo, fatto di un ampio spettro floreale, con sentori di frutta giunta a maturazione, frutta disidratata, crosta di pane, croissant, lievito, ma anche fiori bianchi e agrumi. Al palato grande eleganza, mineralità e intensità, cremoso, morbido, fresco, sapido, che delinea piacevoli sensazioni e una notevole bevibilità. Una bottiglia che è un’autentica esperienza sensoriale, da condividere in una serata importante.
casacaterinametodoclassico.it
Abbinamento Cotoletta alla bolognese con l’arvaia (pomodoro e piselli)
AMARONE DELLA VALPOLICELLA CLASSICO 2012 CANTINE BERTANI
La storia passa da questo storico brand che con il suo secolo e mezzo abbondante di vita, ha segnato le tappe importanti dell’Amarone. Tutto nasce dalla passione per la Borgogna di Gaetano Bertani, che nel 1850 mentre è in Francia, acquisisce i segreti della vinificazione dal suo amico e valente enologo Jules Guyot, gli saranno utili quando sette anni dopo fonda la Bertani, in Valpolicella Valpantena (Verona), insieme al fratello Giovan Battista, un brand che nel corso della sua storia saprà affermarsi portando i suoi vini nei contesti internazionali più esclusivi, a partire dal pranzo per l’incoronazione di re Giorgio VI d’Inghilterra. Il lavoro fatto dai Bertani fin dal 1860 per creare vini che spostassero l’attenzione verso il gusto secco si conferma nel 1959 con la nascita del Recioto secco – Amarone, la prima annata di un vino destinato a un fulgido successo, che conferma le enormi potenzialità di un territorio straordinario. Una coerenza stilistica mai venuta meno che si ritrova anche in questo Amarone Bertani, annata 2012, ottenuto nella Tenuta Novare in Arbizzano di Negrar, su terreni calcarei, basaltici, con uvaggio 80% corvina veronese e 20% rondinella, maturazione in botti di rovere di Slavonia da 50/100 ettolitri per 7 anni e un anno di affinamento in bottiglia. E l’assaggio non disattende. È un viaggio nella storia dell’Amarone, dove il grande vino si palesa per identità, eleganza e spiccata personalità, discostandosi dall’idea che si ha di questo vino, tutto dolcezza, potenza, frutta, intensità. Al naso complesso, con sentori di prugna, ciliegia di Vignola, marasca e subito dopo uva sultanina, the nero, spezie, liquerizia. Un palato aristocratico, austero, secco, morbido, con una coinvolgente trama tannica, una bella acidità, note di frutti rossi e vaniglia, che chiude elegante e persistente. Sono tra i fortunati che hanno potuto assaggiare tutte le annate di Amarone Bertani e sono rimasto colpito dall’incredibile potenziale di invecchiamento, ho assaggiato anche la ’58 mai uscita sul mercato e la ’59, sono autentiche esperienze. Uno dei miei Amarone preferiti.
bertani.net
Abbinamento Cotoletta alla petroniana (prosciutto crudo, Parmigiano, tartufo)
BAROLO CLASSICO DOCG 2018 DOMENICO CLERICO
A Monforte d’Alba un gioiello enologico protagonista assoluto del Barolo. Una storia italiana di fiducia e travaso di esperienze tra padre e figlio, che ha visto Domenico Clerico insieme alla moglie Giuliana prendere le redini dell’azienda paterna nel 1976, quando gli ettari erano appena 4. Un’impresa che ha ampliato la superficie vitata con l’acquisizione dei migliori vigneti vicini, arrivando a un’estensione di 21 ettari vocati. La filosofia dell’azienda passa prima di tutto dalla campagna e dalla vigna, creando con il terreno e la natura un rapporto simbiotico, consolidato anno dopo anno, che ha fruttato riconoscimenti internazionali e una notorietà planetaria. E oggi che Domenico non c’è più e il suo cognome ‘Clerico’ è stato dato anche a un asteroide, l’azienda prosegue grazie a Giuliana e al suo staff, tenendo fede all’idea originaria, fare un grande vino piemontese. Un Barolo Classico di straordinaria finezza e suggestione, messo in bottiglia la prima volta nel 2011, ottenuto con l’assemblaggio delle migliori uve Nebbiolo dei poderi di proprietà nel Comune di Monforte. I vigneti impiantati dal 1968 al 2005, che si ergono tra i 330 e i 380 m, esposti a Est-Sud Est, si avvalgono di suoli con una conformazione geologica che risale a 10 milioni di anni fa, in cui prevale il limo, ma sono presenti anche sabbia e argilla. Figlio minore del ‘Percristina’, si ottiene con macerazione sulle bucce in vasche verticali, maturazione 18-24 mesi in barriques per una parte e 24 mesi all’interno di grandi botti di rovere di Slavonia, per l’altra, affinando in bottiglia almeno un anno. Una delle più coinvolgenti interpretazioni del Barolo in chiave moderna, che al naso si rivela complesso, elegante e ricco di profumi, con note di viola, more selvatiche, humus, frutta candita, liquirizia, cacao, insieme a lievi e intriganti effluvi mentolati e balsamici. Al palato è armonico, preciso, con il legno dosato in maniera eccelsa, suadente, dotato di una grande acidità, una fine trama tannica e una piacevole e lunga persistenza.
domenicoclerico.com
ristorantelumira.com
trattoriabertozzibologna.it
Cover: Photo credits Roberto Carnevali