PINOT NERO E MAZZOLINO: FASCINO DI UN DIALOGO MUTO

Avere la pelle sottile espone crudamente al mondo. La percussione di una goccia di pioggia ferisce con la stessa intensità con cui si percepisce la grazia di un raggio di sole e la finezza del vento primaverile. Quando non si hanno corazze, quando non ci sono protezioni o scudi, quando non si è saputo trovare nella propria storia un meccanismo di protezione, la faccenda diventa difficile. Non ci sono deviazioni e non ci sono ripari: quello che rimane è l’essenza fragile e delicata. La tenerezza e la sensibilità sembrano essere gli unici strumenti per relazionarsi a questo portatore di anima nuda, chiunque egli sia. Bisogna osservarlo, rispettarne i tempi, avvicinarlo con una carezza e con quella discrezione umile di chi cede il passo. Il Pinot Nero richiede questo. Il Pinot Nero è così.

La sua buccia sottile lo rende vulnerabile, delicatissimo, suscettibile a tutti i momenti del mondo e bisognoso del rispetto per i propri. Il corredo tannico è magro, scarno, inadeguato alla protezione. Ne deriva un vitigno misterioso, poiché decisamente poco incline alla manipolazione e alla soddisfazione degli obiettivi vitivinicoli. La sua finestra di raccolta è ridotta a una manciata di giorni, che vanno saputi individuare assecondando i tempi della vite. Qualora vengano brutalmente anticipati, il Pinot Nero mostrerà al viticoltore tutto il suo tratto verde e burbero; qualora vengano ciecamente sorpassati invece, la proverbiale finezza del Pinot Nero si girerà di spalle, lasciando dietro di sé solo la scia di una stanchezza.

Per anni il Pinot Nero è stato un pungolo per tanti. Ne sono rimasti affascinati i viticoltori più “veraci”, quelli che coltivano la terra perché ne amano precisamente questo tratto vitale e imprevedibile. Ne sono rimasti affascinati anche i bevitori, quelli che si lasciano coinvolgere dalla finezza invece che riempire il palato con un’opulenza. Il fascino del Pinot Nero è suadente come l’eleganza ed è intrigante come un indovinello. Benchè sia uno dei vitigni più diffusi sulla faccia della Terra, la verità è che in pochi sono in grado di sostenerlo. Si lascia avvicinare da tutti, ma chi sviluppa con esso un’intesa si conta come piccoli spilli puntati in qualche rado fazzoletto di mondo.

Uno di questi minuscoli angolini si trova a Corvino San Quirico, vicino a Casteggio in provincia di Pavia. Quella terra e quelle mura rispondono al nome di Mazzolino. L’azienda nasce negli anni 80 per passione e desiderio di Enrico Braggiotti, nonno di Francesca Seralvo, che oggi la conduce con il supporto del Direttore Stefano Malchiodi (non a caso un agronomo…). Della realtà di Mazzolino abbiamo già parlato su queste pagine, e non ci ripeteremo. Ciò di cui raccontiamo oggi è una novità, figlia di un approccio estremamente cosciente e familiare al vitigno più sfuggente del mondo.

Stefano Malchiodi e Francesca Seralvo

Il Pinot Nero ti stuzzica” dice Francesca, con quel mezzo sorriso che tradisce una qualche complicità, un gioco a rincorrersi, un dialogo muto e fatto di altre intese. Storicamente esaltato in due etichette, il Pinot Nero di ‘casa Mazzolino’ ha sempre goduto di un palcoscenico privilegiato e meraviglioso, dove ha potuto vivere del suo timbro senza condizionamenti forzati. Un’evidenza mostrata dalla complessità e dalla classe del Noir, e dalla freschezza dinamica, leggerissima del Terrazze. Eppure, non era ancora tutto.

Quella collina, quel piccolo e ripido rilievo brulicante di viti di Pinot Nero dirimpetto alla cantina e alla villa, era più di un vino solo. La diversità che esiste in quel minuscolo spazio di terra era manifesta già nella composizione del suolo, che a valle si caratterizza per una profondità argillosa mentre nella sommità si impreziosisce di gesso e calcare.

Se il Terrazze vuole rappresentare la completezza della collina, assemblandone 4 diverse vigne, il Terrazze Alte vuole esaltare la sommità di essa. Il tutto si sintetizza ancora una volta in quella pluralità che può essere il Pinot Nero, equivoco come un labirinto e imprevedibile come il percorso dei torrenti.

Entrambi, il Terrazze e il Terrazze Alte, provengono da una vinificazione in acciaio e sono scevri di filtrazione. Ciò che cambia è la loro culla natale e, ancora una volta, i loro tempi, poiché il Terrazze Alte viene imbottigliato qualche mese dopo il Terrazze. Ne derivano due vini sensibilmente differenti, per finezza e per destinazione. Ma del resto si sa, al Pinot Nero piace sorprendere. Il 2020 è la loro prima annata a confronto. Il Terrazze è fresco, croccante, scattante, al naso così come al gusto. Ricorda i frutti di bosco, il ribes, il lampone, con una leggera parte di fungo che apporta la sua varietale velina terrosa. Il Terrazze Alte è finezza e apre le sue braccia a una maggiore complessità. La frutta rossa qui è meno acidula e si lega a una nota di miele, una di castagna e una certa impronta erbacea. L’incedere di bocca è elegante, sottile nelle movenze e incisivo nel carattere, agitato da una parte sapida che ricorda a tutti da dove proviene.

 

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