“C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA” IL PROIBIZIONISMO
Era il 16 gennaio del 1920 quando a Washington il Congresso degli Stati Uniti approvò il XVIII emendamento e la Proibizione divenne legge. Entrò in vigore il famigerato Volstead Act, con cui si stabilì il divieto di produrre, vendere e trasportare alcolici su tutto il territorio statunitense.
Proibito, dunque investito di nuovo irresistibile fascino. Il divieto, infatti, non significa necessariamente astensione, spesso si traduce nella pratica sotto forma di trasgressione. Vero è che la penuria di liquori durò pochissimo e l’alcol tornò presto a scorrere a fiumi. Già a mezzanotte e tre quarti del 17 gennaio, a Chicago, un treno con un carico di whiskey del valore complessivo di 100.000 dollari fu assaltato e rapinato da una banda armata, dando così ufficialmente i natali al contrabbando e al mercato nero degli alcolici.

Auto del Bureau of Prohibition usata dagli agenti del Tesoro per fermare i veicoli sospetti
La festa più grande, approvato l’emendamento, la celebrò proprio la malavita. Un nome su tutti, Al Capone che nel giro di cinque anni avrebbe accumulato grazie al proibizionismo circa 60 milioni di dollari, mentre accanto al suo impero fiorivano le epopee di Lucky Luciano, Benjamin «Bugsy» Siegel e tanti altri delinquenti beneficiati dal Bootlegging, ovvero lo spaccio illegale di alcol.
In 12 anni, dal 1920 al 1932, la produzione di alcolici passò negli Stati Uniti da 190 a 290 milioni di litri. Nacquero e si diffusero gli SpeakEasy, veri e propri spacci clandestini di bevande alcoliche, che aprirono a decine di migliaia in tutto il Paese. Bar segreti privi di insegne, generalmente nascosti dietro agli ingressi più improbabili, (farmacie, drogherie, macellerie). Qualunque posto apparentemente normale poteva celare un passaggio discreto verso un mondo proibito, fatto di cocktail e musica dal vivo. Qui dove Swing, Charleston e Shimmy erano di casa, era indispensabile una parola d’ordine.

Washington, 11 novembre 1922: agenti del tesoro confiscano una distilleria clandestina
Immediata fu la diffusione dei Wine-bricks, veri e propri «mattoni» di mosto concentrato solidificato, che potevano essere legalmente commercializzati, perché privi di contenuto alcolico. La ricetta era semplicissima: con un gallone di acqua e un po’ di pazienza si poteva far fermentare il succo d’uva concentrato direttamente all’interno delle mura domestiche. Sul retro della confezione erano riportate le avvertenze su ciò che non andava fatto, onde evitare la trasformazione del mosto in vino: un sagace stratagemma per fornire tutte le indicazioni circa la modalità d’uso. In un articolo scritto da un corrispondente del New York Times, in visita a Los Angeles nel 1931, si legge: “Nel quartiere italiano l’aria è pregna dell’odore pungente delle fermentazioni realizzate nei tini sistemati nei garage e nei seminterrati, nei lavatoi e nelle cucine. Occorre dirlo: il vino è ovunque”.
Vista la scarsa competizione, i viticoltori iniziarono ad arricchirsi rapidamente, tanto da convincere altri coltivatori a trasferirsi in Napa Valley. Tra questi, un nome che diventerà poi celebre nel mondo della viticoltura americana, quello di Cesare Mondavi.
Tornò in circolazione il già noto Moonshine, un distillato illegale prodotto artigianalmente. Il termine americano – letteralmente «al chiaro di luna» – fa riferimento alla produzione rigorosamente notturna, essendo preclusa la lavorazione alla luce del sole. Dimentichiamoci dunque la costruzione di distillerie, l’assunzione di personale, la maturazione in botte, il pagamento delle tasse e tutto quanto potesse essere facilmente tracciato e intercettato dalle forze dell’ordine. Altrettanto popolari furono i Bathtub Gin, così detti alludendo ai mezzi di fortuna, vasche da bagno (bath tub) e termosifoni con cui erano solitamente prodotti. La lavorazione artigianale dei distillati poteva portare a contaminazioni, talvolta con effetti collaterali non trascurabili e pericolosi per la salute: non era raro che i consumatori più accaniti rischiassero la cecità o la paralisi motoria.
Erano dispensate dal proibizionismo le congregazioni di varie confessioni religiose, alle quali fu riconosciuto il diritto di esenzione: questo incentivò il proliferare di fantomatiche chiese autoctone. Si registrò un aumento esponenziale di sacerdoti questionabili di dubbia vocazione, che andavano somministrando ambigui vini da messa. Altra eccezione alla regola era la prescrizione di distillati per uso medico, (il limite consentito era di una pinta ogni dieci giorni).
L’alcol era acquistato e venduto con ogni mezzo. Prima dell’approvazione della legge, il numero delle fabbriche che producevano bevande alcoliche non era più di quattrocento, mentre sette anni dopo la proibizione il contrabbando vantava ormai più di 80.000 centri di produzione. Stando ad uno dei procuratori federali dell’epoca il solo traffico illegale di liquori nel 1926 arrivò a produrre un giro di affari di 3,6 miliardi di dollari: una cifra pari all’intero budget federale riferito a quell’anno.
In questo periodo si diffuse anche il Rum-running, una pratica con cui ci si riforniva di rum direttamente ai Caraibi – sotto amministrazione britannica – per poi tornare di corsa in patria (running), sperando di non incappare nei controlli da parte della Guardia Costiera statunitense. Qualsiasi protesta delle istituzioni USA rimase inascoltata da parte del Governo inglese: Winston Churchill arrivò a dichiarare pubblicamente che il Proibizionismo non era altro che «un affronto all’intera storia dell’umanità».
In realtà il Proibizionismo si fece strada negli States su forte pressione da parte delle cosiddette Società per la Sobrietà, (come l’Anti-Saloon League, il Prohibition Party, le Daughters of Temperance) gruppi di natura politica e religiosa, caratterizzati da un moralismo stringente e irreprensibile. Questi promossero una massiccia campagna propagandistica – per cui furono spesi in 10 anni 65 milioni di dollari – volta ad informare la cittadinanza circa i danni fisici, morali ed economici provocati dall’alcol. A questo scopo furono pubblicati libri e proiettati film che mostravano la mesta fine degli alcolizzati. Il senatore Andrew Volstead – che promosse l’omonima legge – all’indomani della sua entrata in vigore dichiarò: “i quartieri umili presto apparterranno al passato. Le prigioni e i riformatori resteranno vuoti. Tutti gli uomini cammineranno di nuovo eretti, tutte le donne sorrideranno. Le porte dell’Inferno verranno chiuse per sempre”.

Sequestro di alcolici a Washington DC. (14 ottobre 1922)
Una previsione oltremodo ottimista. Secondo le statistiche della Corte di Giustizia omicidi, furti e rapine non fecero che aumentare, mentre la corruzione divenne esponenziale e il numero degli alcolizzati rispetto al periodo precedente il proibizionismo finì addirittura per triplicarsi. Anche gli arresti per ubriachezza e guida in stato di ebbrezza incrementarono: era meglio finire la bottiglia, piuttosto che farsela trovare addosso.
L’obbiettivo di eliminare un consumo di massa radicato nella storia, nella tradizione, nelle abitudini di tanta parte della società, si rivelò molto più difficile da realizzare di un cambiamento costituzionale. A ottobre 1930 il noto contrabbandiere George Cassiday scrisse cinque pagine – pubblicate sul Washington Post –- spiegando come egli stesso avesse rifornito di alcolici circa l’80% dei membri del Congresso, denunciando così tutta l’ipocrisia della norma perbenista e aumentando drasticamente l’opposizione popolare al Proibizionismo.

Legalizzazione della birra con un contenuto alcolico del 3,2% grazie a Franklin Delano Roosevelt (22 marzo 1933)
Franklin Delano Roosevelt vinse le elezioni del 1932 anche con la promessa di abolire il 18° emendamento. Il 22 marzo 1933 firmò il Cullen-Harrison Act che consentiva la produzione di alcolici di gradazione non superiore al 4%. Nell’apporre il proprio imprimatur, l’inquilino dello Studio Ovale pronunciò l’indimenticabile battuta:
«I think this would be a good time for a beer»
(Penso che sia un buon momento per una birra)
Entro le prime 24 ore dalla firma presidenziale, la sete arretrata degli anni asciutti fece vaporizzare oltre un milione e mezzo di barili di birra. Verso la fine del 1933 era ormai abbastanza diffusa la percezione che l’esperimento si fosse rivelato un buco nell’acqua. Il Proibizionismo aveva cancellato migliaia di produttori di vino, liquori e superalcolici, distruggendo posti di lavoro e creando al tempo stesso una florida economia silente e criminosa, che sfuggiva totalmente al fisco. Il 5 dicembre del 1933 la ratifica del XXI emendamento pose fine all’era del Proibizionismo. Dopo aver sofferto per circa 13 anni, l’America poté riprendere liberamente le sue sbicchierate, senza mai dimenticare quegli anni ruggenti – the Roaring Twenties – destinati ad entrare nel mito del cinema e della narrativa yankee. Ricordate quel funerale burlesco celebrato alla morte del Proibizionismo – con tanto di cassa da morto – in uno dei capolavori di Sergio Leone? C’era una volta in America: il gusto del proibito.

Clienti in un bar di Philadelphia dopo la fine del proibizionismo (dicembre 1933)