PIEVALTA: QUANDO COLTIVARE È UN FATTO DI SENSIBILITÁ
Tra le crepe della sua corteccia si può leggere la traccia di tutto quello che c’è stato, immaginandosi la possenza del suo vissuto. Una vite vecchia è custode di una storia che, per noi, ha solo forma. La sua voce narrante sta nell’emozione che si prova a sfiorarne il tralcio contorto e gibboso, intagliato con lo scalpello dei venti, disteso con la carezza del sole, modellato dall’abilità del tempo. La sua voce narrante è sorda, quando si trova dinnanzi a un interlocutore frettoloso, impaziente, ai limiti del robotico, nostalgicamente attaccato a quella superficialità comoda, elusiva di qualunque tipo di attesa. La sua voce narrante è invece un avvincente rompicapo, un affascinante messaggio in codice, per chi rimane a osservare quella strana e armonica somma di legni e germogli, una somma di quiete e di agitazione, di saggezza e di dirompente giovinezza. Chi sa come guardare, chi sa dove guardare, in questo ammasso di materia scorgerà un individuo e ne saprà interpretare le poco prevedibili e standardizzabili esigenze, assecondandole in nome di un equilibrio che, qui, tesse la trama del dialogo più bello fra la vigna e il suo vignaiolo. Si getti via il manuale di istruzioni – ammesso che qualcuno abbia mai avuto il coraggio di redigerne seriamente uno – e si rimanga in ascolto della vigna, davvero. Questo è quello che ha fatto Alessandro Fenino, a Pievalta. Ma, andiamo per gradi.
Gli anni ’90 fremevano sul traguardo del nuovo millennio, quando Barone Pizzini decise di investire su altri territori del vino italiano, a fronte di un nuovo sbocco aperto sui mercati esteri che stava regalando loro più di una soddisfazione. Dapprima si approdò in Puglia, per poi abbandonarne i lidi; poi ci si diresse verso la Maremma toscana, dove tutt’oggi vive un baluardo che porta il calco di Barone Pizzini. Terra di rossi, quindi.
Era tempo di spostarsi verso un bianco, per completare la gamma o per poter abbracciare il mondo produttivo del vino a 360 gradi. Silvano Brescianini, Direttore Generale di Barone Pizzini, nutriva già una certa preferenza per quel Verdicchio dei Castelli di Jesi che lo stupiva nelle degustazioni fatte in compagnia dell’allora Sommelier di Gualtiero Marchesi. E, quindi, Verdicchio fu. Ma, come ben ricorda Silvano nel raccontare come la faccenda precisamente andò, “lì ti accorgi della differenza tra la realtà e il sentito dire”. Furono necessari due anni, per riuscire a trovare la tenuta che facesse il caso loro. Poi, finalmente, la scovarono, nascosta in quella porzione di Marche che risponde alla provincia di Ancona e si mantiene ad ugual distanza dal mare e dal confine umbro.
Inizialmente si trattava di un’estensione di 20 ettari accorpati, con un vecchio rudere a vegliare su di esse, quasi fosse un vecchio guardiano posto lì dalla saggia premura dei secoli. Nacque così, Pievalta. Prendeva il suo nome da una piccola chiesetta in parte all’ingresso, sulla cima, non per niente chiamata Pieve Alta.
Alessandro Fenino prese da subito le redini dell’azienda, di cui tutt’oggi è direttore con il prezioso supporto di Silvia Loschi, il volto più sorridente che Pievalta potesse sperare di accogliere fra le sue vigne. La prima vendemmia avvenne nel 2003, ma nulla fu facile in quell’anno. L’annata estremamente calda non agevolò le presentazioni, già incerte in quel primo anno in cui Alessandro e tutta Barone Pizzini si trovavano a fare i conti con un’eredità e non con il frutto delle loro scelte. Il vigneto, all’epoca, arrivava da anni di viticoltura convenzionale. La conversione in biologico fu immediata e ci vollero un altro paio d’anni affinchè si intraprendesse un percorso che stravolgeva l’approccio alla vigna, un approccio forse ancora mai visto da quelle piante. Si iniziò, pertanto, la conversione in biodinamico. E non tanto per un significato del termine, o per una certificazione. Ma perché così la vigna risultava più viva e i vini più energici, più dinamici al palato.

Alessandro Fenino e Silvia Loschi
Saper rimanere in ascolto del vigneto è un concetto scevro da qualunque tipo di misticismo; è, al contrario, un concetto pregno della consapevolezza di come la pianta sia un essere vivo e molto meno prevedibile di quanto siamo superficialmente portati a pensare, e di come la sua indipendenza di vivente si basi su un equilibrio, su un’armonia che esiste già nelle sue fibre. Ma saper rimanere in ascolto del vigneto è arte di pochi davvero. Alessandro ha in dono questa sensibilità, supportata da una gran dose di cultura. “Insieme ad Alessandro” racconta Silvano “ho avuto la possibilità di seguire questa azienda sin da quando esiste. Abbiamo avuto la possibilità di decidere quanto c’è adesso, l’abbiamo costruita pezzo per pezzo”.
“Non conoscendo il vitigno, nei primi tempi abbiamo dovuto fare tante prove” prosegue “A fare queste cose non te lo insegna nessuno”. Le prime sperimentazioni coinvolsero anche le anfore. Se ne fecero costruire due da un artigiano umbro, con l’obiettivo poi di interrarle. In seguito considerarono la vinificazione con il raspo, che tutt’ora avviene su parte dell’uva. Quella carica polifenolica varietale – doppia rispetto a quella dello Chardonnay – lo rendeva un signore molto elegante ma estremamente intransigente, ed era complesso capire i suoi momenti.
Nel 2003 Barone Pizzini annettè a Pievalta un altro vigneto, poco distante dal corpo principale. Era la vigna San Paolo. Silvano sorride ancora nel ricordarlo “Dissi ai soci: sappiate che se non la prende Barone Pizzini, la prendo io. Quando sei lì hai davvero la sensazione di essere in un posto speciale”. Un vigneto ripido, San Paolo, dove si alternano argilla e arenaria. La particolarità di quest’ultima risiede nella sua matrice sabbiosa di origine alpina. Ovvio, l’arenaria è comune in diverse zone. Ma qui, a San Paolo, questa roccia clastica capace di trattenere l’umidità si trova particolarmente in superficie. Ed è solo uno dei tanti fattori che rendono San Paolo un luogo molto, molto speciale.

La vigna San Paolo
Ad oggi gli ettari vitati di proprietà dell’azienda Pievalta sono 32. In ogni angolino di Pievalta il Verdicchio si tinge di umori diversi: a Montecarotto c’è la bacca più fine, più elegante, a San Paolo c’è la complessità e l’attitudine a interagire con il tempo, a Cupramontana l’altitudine e la sabbia bianca lasciata a memoria di un lago molto antico promettono un futuro super cru. E a Maiolati Spontini c’è la storia, c’è casa. Qui, sul Monte Schiavo nel comune di Maiolati Spontini, sorge la casa colonica, la cantina, un laghetto, gli ulivi, un orto che regala sapori ormai perduti nella quotidianità di molti e, soprattutto, il corpo centrale del vigneto, quei 14,4 ettari di Verdicchio e 1,5 ettari di Montepulciano che cingono le strutture in mattoni e le dissolvono in un paesaggio fatto di saliscendi verdi di vite e gialli di girasoli.
Fu difficile anche definire uno stile, qui a Pievalta. Abituati come si era alla finezza del Franciacorta, si sarebbe potuto pretendere il medesimo passo felpato anche da questa intrigante bacca marchigiana. Ma sarebbe stato l’errore più grosso di tutti. Serviva osservarlo, capirlo, comprenderlo e scortarlo nella sua personalissima danza. “In fondo” dice Silvano “stiamo parlando di un prodotto agricolo: il suo valore principale è la coltivazione. A noi resta da vinificare un’uva che abbia qualcosa da esprimere”.
DEGUSTAZIONE
DOSAGGIO ZERO METODO CLASSICO VSQ PERLUGO
89/100
Il Metodo Classico dell’azienda – 100% Verdicchio – dedicato a Ugo Colombo. Fu lui, in Barone Pizzini, a credere moltissimo a questo progetto. Le vigne più giovani portano la loro freschezza e si impreziosiscono di una complessità frutto dei due anni di sosta sui lieviti. Il naso non è affatto banale. Il suo charme fruttato si concede qualche guizzo erbaceo e una lieve nota di mela che regala una certa rotondità. La bocca è un susseguirsi di sorsi, una beva incalzata dalla freschezza e resa stabile da un ottimo corpo. Finezza e struttura sintetizzano questo calice.
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI CLASSICO SUPERIORE TRE RIPE 2020
87/100
Qui i 6 mesi di affinamento in acciaio restituiscono un Verdicchio nella sua interpretazione più croccante, scattante e fresca. Il naso è piuttosto pungente, di erbe aromatiche, muschio bianco e fiori, con una punta che riporta alla salamoia. Un naso affatto banale, così come la bocca, che si afferma in una bella struttura e una finitura fresca.
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI CLASSICO SUPERIORE DOMINÈ 2018
88/100
Le uve Verdicchio provenienti dalla tenuta madre, dal cru Maiolati. Il 30% del vino affina in botte grande, conferendo al naso e al sorso una certa e ben dosata morbidezza. Anche in questo caso, il profumo viaggia su inaspettate note che dal fiore vira verso una traccia di frutta secca, poi una di liquirizia e salsa di soia. Il palato conferma la stratificazione del naso, specialmente in quella nota di liquirizia che riecheggia piacevolmente in persistenza.
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI RISERVA CLASSICO SAN PAOLO
2017
90/100
Si vinifica solo nelle annate migliori. E il motivo è subito evidente. Qui il Verdicchio si sfila delicatamente il cappello e si accomoda con quella signorilità propria dei gentiluomini di un tempo. Sa ospitare fra le sue braccia complessità e finezza, acidità e spessore materico. Definisce il suo criterio di eleganza e lo comunica in un palato estremamente dinamico, energico e in continuo sviluppo. Sapidità e snellezza ne muovono quei passi che disegnano una danza tanto frenetica quanto composta.
2004
88/100
Il naso è quello dell’evoluzione priva di eccessi o di ridondanza alcuna. Il tempo ha ammansito tutto ciò che ancora poteva esserci di irrequieto e scalpitante, risolvendosi nell’invidiabile compostezza dei saggi. Le uve, in quell’anno, iniziavano a meravigliarsi del nuovo approccio biologico e iniziavano a restituirne le prime risposte. Quello che oggi leggiamo come fosse una pagina strappata da un diario è un naso di bellissima complessità. C’è la parte balsamica che ricorda la resina di pino, c’è una parte di miele, c’è la frutta secca. C’è la pesca matura; e poi, c’è la magica di un idrocarburo non forzato, ma apparso spontaneamente secondo il suo tempo naturale. La texture del sorso è setosa e glicerica. Eppure, il protagonismo è ancora del sale, di quella finezza minerale che disegna l’equilibrio e che narra di una certa e ancora attuale vitalità.