TIRE-BOUCHON, LA LIBERTA’ IN UN GIRO DI VITE
Per l’edonista gaudente, amante del libero agire, avvezzo a cogliere il singolo attimo, il vino può sembrare destinato ad una sorte impietosa: crescere ed evolvere all’interno di uno spazio vitale angusto fatto di oscurità e silenzio. Dopo aver sopportato, nelle fasi iniziali del suo percorso, vari sconvolgimenti molecolari e tumultuose trasformazioni chimiche (imposte od occasionali), il vino, confuso e frastornato, esige un periodo di quiete e riflessione. Ancora ingenuo e fin troppo puro, è costretto all’interno del guscio vitreo nel quale riposa, a guardarsi dentro, alla ricerca della propria identità espressiva. È un viaggio in salita, una vera e propria anabasi, che porta a disvelare sfumature primordiali spesso inconsapevoli, in modo da divenire un vino pronto ad affrontare il mondo.
Ogni bottiglia, fintanto che resti sigillata, custodisce al proprio interno un mistero. L’arcano è lì, pronto per essere svelato: basta un semplice gesto, aprire la bottiglia e anche noi ne faremo parte. Stappandola, come un vaso di Pandora, finirà per manifestare tutto di sé, i suoi celati segreti, le sue intime emozioni, i suoi errori, concludendo così il suo ciclo vitale. Per sempre.
Il cavatappi è il mezzo che consente tutto questo: non un oggetto banale, ma l’occasione per far emergere il mondo racchiuso all’interno di un simulacro. Per i francesi è il tire-bouchon, italianizzato tirabusciò. In Toscana è lo stappino, in Veneto è il cavastropoli, se scendiamo fino in Calabria lo troviamo come stippabuttiglia. Comunque lo si chiami, il suo uso accompagna un vero e proprio rito: un gesto consueto e automatico che ci permette di accedere ad uno dei piaceri della vita.
La nascita e l’uso dei cavatappi vanno di pari passo con la storia del commercio del vino, del sughero e del suo principale contenitore, il vetro. Già i greci utilizzavano tappi di sughero rivestiti di resina per sigillare le anfore per il trasporto del vino, ma furono gli inglesi – abili commercianti e consumatori indefessi di vino proveniente da Italia, Spagna e Francia – ad utilizzare usualmente la sigillatura dei grandi recipienti, così che il liquido custodito all’interno potesse sopportare lunghi e movimentati tragitti, spesso via mare.
Il vino era commercializzato prevalentemente in fusti e botti, dai quali era poi travasato in bottiglie o boccali per poter essere portato dalle cantine alla tavola. L’arte vetraia dell’epoca, eseguita rigorosamente a mano, realizzava contenitori differenti tra loro e dalle capacità non omologate, lasciando libero spazio alla frode e al raggiro: per questo motivo nel 1728 fu autorizzato il commercio del vino in contenitori di vetro riportanti la medesima capienza e tappati con il sughero, materiale già industrializzato, come attestato dalla costruzione di una prima fabbrica di tappi di sughero in Spagna nel XVII secolo.
Nel 1795, il reverendo Samuel Henshall depositò il primo brevetto per un cavatappi. La forma originaria di tale strumento si pensa fosse legata alla produzione delle armi da fuoco, data la forte somiglianza con la verga spiraliforme utilizzata per rimuovere le palle di piombo incastrate nelle bocche dei cannoni o per recuperare la stoppa impiegata per pulire le canne di fucili e pistole. Fino all’avvento del tappo a corona, risalente alla fine dell’Ottocento, tutte le bottiglie contenenti liquidi come vino, birra, profumi o prodotti farmaceutici erano sigillate con tappi di sughero: nacquero, così, cavatappi di ogni foggia e dimensione.
La storia di questo utile strumento annovera diverse declinazioni estetiche: il manico poteva essere realizzato in essenze più robuste e durevoli come bosso, melo, noce, ebano e il pregiatissimo bois de rose, ma anche ottone, argento, ferro o avorio, dando libera espressione ad un ricco decorativismo, in base alle diverse epoche artistiche.
La vite, anche detta ‘verme’, dunque la parte da inserire nel tappo, poteva essere a filettatura inclinata, a vite di Archimede, a sezione rettangolare, elicoidale, rotonda, a passo normale o ridotto, oppure a filo elicoidale scanalato. Solo successivamente farà la sua comparsa il cavatappi “a campana” costituito da una vite apicale, da girare in senso orario grazie all’azione di un dado a farfalla, che permetteva di non toccare né tappo, né bottiglia. L’evoluzione tecnica di tale cavatappi fu l’inserimento di una o più leve.
Fu poi ideato il coltello da taschino, per disporre di questo utensile in ogni occasione, a cui fu spesso associato, grazie ad una serie di brevetti inglesi e tedeschi, il verme del cavatappi. Come precursore del ‘coltellino svizzero’ il cavatappi poteva essere associato ad altri utensili quotidiani, come forbici, lente d’ingrandimento, cacciavite, cucchiai per somministrazione di medicine, taglia-carte, acciarini, pressa-tabacco, taglia-sigari o pulisci zoccoli, realizzando uno strumento multifunzionale e composito, spesso riccamente decorato con scene di caccia e mestieri, lavorato in essenze più o meno pregiate, con inserti e finiture in metallo o madreperla.
A metà Ottocento furono brevettati i cavatappi da banco e a parete in uso nei ristoranti, taverne ed osterie. Il primo a leva, era fissato con una morsa al bancone del locale, mentre il secondo era ancorato saldamente al muro. In questo stesso periodo iniziarono a diffondersi i primi cavatappi personalizzati e pubblicitari con l’incisione del nome di una specifica casa vinicola, di un importatore o commerciante di vino o di un locale alla moda. L’evoluzione di questo oggetto è il contemporaneo cavatappi da sommelier, strumento fondamentale e indispensabile per garantire un rituale d’apertura elegante e professionale di una bottiglia.
Il Tire-bouchon? “È la sola arma che ritengo indispensabile”, diceva Jean Carmet, attore francese e grande amateur di vini in generale. E come dargli torto…