Il panino con la mortadella è scolpito nell’immaginario dei nostri momenti felici. È un salume che mette d’accordo tutti e non siamo i soli a pensarlo, è dai tempi di Plinio Il Vecchio, che sono noti i suoi profumi e la sua bontà. Ed è proprio il cronista e uomo di lettere vissuto tra il 23 e il 79 d.C., a riferirci quanto i Romani nel I° secolo, si cibassero già di un salume molto simile alla mortadella, che chiamavano farcimen murtatum, un insaccato di suino a base di carne finemente tritata, preparata nel mortarium o mortaio, aromatizzata con il mirto. Già in voga in Emilia durante l’epoca romana imperiale, accompagnerà l’alimentazione dei nostri avi anche nei secoli successivi, tanto che nel medioevo a evidenziarne il valore, verrà marchiata con un sigillo di ceralacca. Un salume tanto prelibato da essere menzionato da Giovanni Boccaccio nel Decamerone, ci conferma Giovanni Ballarini, Professore Emerito e storico dell’alimentazione, che continuerà ad allietare la tavola fino ai giorni nostri.
Onnipresente nella dieta degli emiliani, tagliata a fette sottilissime, oppure a cubetti o ancora come ingrediente nella cucina della tradizione, insostituibile nel ripieno dei tortellini, la mortadella si produce storicamente a Bologna e a Modena, tuttavia a San Prospero, nella bassa modenese, presso il salumificio Mec Palmieri, se ne produce una di qualità elevatissima e di bontà sopraffina, ottenuta con un metodo unico al mondo. Una tradizione antica, quella della lavorazione delle carni e dei salumi, che ha caratterizzato il modenese fin dal Cinquecento, grazie alla fertilità del contesto, ricco d’acqua, di querceti e castagneti e quindi di ghiande e castagne di cui sono ghiotti i suini, che favorirono prima il pascolo brado e poi l’allevamento di maiali in tutta l’area, caratterizzando una filiera vera e propria, con arti e mestieri connessi a queste lavorazioni, dal taglio delle carni, alla concia, dalla salatura, alla stagionatura. Grazie al ritrovamento di documenti erariali, si attesta quanto fosse attiva nel modenese, la potente corporazione dei Salsicciai e Lardaroli. Nello Statuto comunale di Modena del 1327, conservato nell’Archivio Storico comunale, si descrivono dettagliatamente le norme e le regole a cui dovevano attenersi i professionisti iscritti all’arte dei Lardaroli e Salsicciai, richiamando l’attenzione sugli spazi riservati agli animali “porcini”, che allora pascolavano liberi tra le vie della città e le modalità con cui dovevano essere trattati a favore dell’igiene pubblica. La svolta si ha nei primissimi anni del 1600, quando Modena divenne capitale del Ducato Estense, grazie all’arrivo della nobile stirpe, che aveva perso il dominio di Ferrara, in quell’epoca la corporazione contava ben 291 affiliati, a dimostrazione di una radicata tradizione nell’arte norcina. Certo, Bologna gode di una lunga tradizione nell’arte della mortadella, consultando il volume Mortadella che passione a cura di Giancarlo Roversi e Corradino Marconi, apprendiamo che dopo l’Unità d’Italia permanevano nella città delle Due Torri, ben 70 fabbriche di mortadella e oltre 200 salumerie con laboratorio e produzione. Tuttavia, non va dimenticato che nella città della Ghirlandina c’è una tradizione altrettanto antica e ha sede la Salumeria Giusti, la più antica insegna del genere d’Europa, che con le sue boiseries, le sue vetrine colme di prelibatezze e l’ottima gestione della famiglia Morandi, continua una tradizione attiva fin dal lontano 1605, mentre nella limitrofa Castelnuovo Rangone, a rimarcare la tradizione norcina modenese, ha sede il MUSA, che è il primo e unico Museo della Salumeria in Italia.
Un florido contesto, denso di saperi e tradizioni norcine, dove nel 1919 apre i battenti in Corso Canalchiaro, nel cuore della città, il Salumificio Palmieri. Il fondatore è Emilio Palmieri, che allora risiedeva in via Malatesta e con la sua bottega di salumi artigianali di qualità si attesta fra le realtà produttive più interessanti di quegli anni. Nel 1961 sarà il figlio Carlo a trasferirsi per esigenze di spazio, nella Bassa Modenese avviando nei locali di un ex burrificio, una produzione ancora artigianale di mortadelle, salami, ciccioli, pancette e coppe, fino ad arrivare all’inizio degli anni Novanta, quando avviene la svolta verso la produzione di mortadella di alta qualità, che ha reso la Palmieri leader di settore. All’infaticabile lavoro di Marcello Palmieri, titolare insieme ai fratelli Massimo e Michele, del salumificio di famiglia a San Prospero, si aggiunge in questi anni l’apporto dei nipoti Francesco e Margherita, la quarta generazione. Una famiglia di imprenditori entrata nella storia della salumeria, per aver creato la famosa mortadella Favola, la prima ad essere insaccata e cotta nella cotenna. Un brevetto esclusivo, che caratterizza una mortadella semplice e naturale, composta da sole carni italiane, guanciale, sale, aromi naturali e miele, creato dai Palmieri nel 1997, connotando un innovativo balzo in avanti per tutto il comparto della salumeria. Metodo artigianale, alta qualità, utilizzo di materie prime pregiate, una lunga tradizione e soprattutto l’impiego di uno spesso strato di cotenna naturale, ad avvolgere la mortadella. Un salume adatto anche per consumatori affetti da celiachia, senza lattosio, senza proteine del latte, senza glutammato e polifosfati aggiunti. Radici solide, per un’azienda che dispone di uno stabilimento all’avanguardia, costruito dopo il terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna nel 2012 e oggi totalizza un fatturato di circa 50 milioni di euro.
Passiamo al tasting, dove assaggiamo quattro calici abbinati a quattro mortadelle ed altrettanti piatti gourmet, che ci hanno davvero convinto. Bon appétit!
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Casa molto famosa, vino molto importante, parcella storica. Un Barolo che è un concentrato di territorio, dove le Langhe che si percepiscono nel bicchiere, sono frutto della dedizione al vino e alle tradizioni di una famiglia, impegnata in vigna, quasi esclusivamente nella produzione e vendita delle uve, fin dai primi del Novecento. Quattro generazioni, che hanno sempre fatto i conti con la medesima filosofia: “…custodire il carattere dell’uva, esaltarne la ricchezza, trasformandola in vino che cresce e matura senza fretta”. Poi l’ingresso di Ferdinando Principiano in azienda nel 1993, che dopo la laurea in Enologia, si dedica interamente a una sua linea di vini attirando l’attenzione dei wine lovers, fino al 2003, quando inizia una riconversione al ‘naturale’, che guarda ancor più attentamente all’ecosistema e alle buone pratiche agronomiche, dove l’uva viene pigiata con i piedi, si vinifica esclusivamente con lieviti indigeni e non si utilizza alcuna sostanza chimica, sia in vigna che in cantina. Un grande Barolo che convince già da giovane, sosta due anni in botti di legno, senza solfiti aggiunti e potrà solo migliorare con il tempo. Al naso colpisce per la grande vitalità olfattiva, con sentori di prugne, ciliegia Moretta, ribes nero, accenni di cannella, chiodi di garofano, ibisco, ginestra. Al palato morbido (in luogo della gran quantità di argilla nel terreno), pronto, piacevole, tannico, elegante, complesso, fine, a tratti austero, con un finale lungo ed entusiasmante. Straordinario abbinato alla tigella cotta su pietra, farcita con mortadella, scaglie di Parmigiano 30 mesi e aceto balsamico di Modena ABTM, di Dispensa Emilia (Firenze).
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A San Pietro in Cariano, tra le colline della Valpolicella Classica, in un’antica cava d’arenaria recuperata, nasce nel 1999 Zýmē, una fucina di idee e slanci in avanti, punto di arrivo e di ripartenza per Celestino Gaspari, figlio d’arte, con i genitori vignaioli e un suocero del calibro di Giuseppe Quintarelli, figura leggendaria dell’Amarone a cui è stato accanto a lungo, prima di spiccare il volo. “Leggibilità è ciò che io chiedo al vino, che in ogni sorso sia racchiusa una storia in osmosi tra la mia identità e la terra che amo, difendo, curo e rinnovo”, parole che sono l’essenza della filosofia dell’enologo e patron Celestino Gaspari, a cui si devono alcune tra le più intriganti interpretazioni dell’areale enoico veronese. Grandi classici o vitigni autoctoni dimenticati, come Oseleta, un nome posto in etichetta solo dall’annata 2008, quando l’obiettivo che si era posto Gaspari è stato finalmente raggiunto. Una produzione ottenuta su suoli calcarei, argillosi, alluvionali, con concimazioni organiche, potature e vendemmie manuali, un’accurata selezione dei grappoli, la diraspapigiatura delle uve fresche, la fermentazione con lieviti indigeni per due settimane; l’affinamento in barriques per minimo 36 mesi e in bottiglia per 12. Una delle più interessanti espressioni di questa varietà, il cui sorso è un’autentica esperienza e colpisce per unicità. Al naso un ampio profilo olfattivo, che esprime sentori di fiori bianchi, frutti rossi, more selvatiche, ribes nero, agrumi canditi, mentre al palato tanta eleganza, frutta, complessità, potenza, croccantezza, mineralità, acidità, con una trama tannica vellutata non invadente e una chiusura entusiasmante, persistente, lunga. Un Oseleta di pregio, da gustare con qualche profumata fetta di mortadella, ma da provare anche con lo sformatino di patate e mortadella e i tortellini in crema di Parmigiano dello chef Max Poggi, al ristorante Massimiliano Poggi Cucina (Trebbo-Bologna).
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Animati dall’intento riuscito di fare grandi vini dall’approccio territoriale, i fratelli Emilio e Aurelio Del Bono, figli di Francesco e Caterina, fondano negli anni ‘80 Casa Caterina. Un desiderio di intraprendere che sarà un inno alla sostenibilità, ispirando le loro azioni nei decenni successivi e oggi continua insieme alla nuova generazione rappresentata da Paolo, Angela, Marco e Elisa Del Bono. Un’interessante realtà vitivinicola a conduzione familiare, emblema della Franciacorta del vino che vorremmo e compie ciò che occorre compiere per salvaguardare il pianeta, mettendo in opera interventi ridottissimi, metodi di vinificazione tradizionali, principi biodinamici, rispetto verso la biodiversità del territorio, utilizzando lieviti indigeni per la fermentazione spontanea ed evitando additivi enologici. 7 ettari vitati, su terreni calcareo-argillosi, collocati tra le aree vocate di Gaina, Colombaia e Persaga, con esposizioni a sud, sistemi di allevamento Gujot e notevoli pendenze. Una realtà vitivinicola, focalizzata sul metodo classico, che esprime una stilistica personalissima, con procedimenti che richiedono lunghe soste sui lieviti e vanno da un minimo di 36 mesi fino a 120 mesi, con sboccatura “à la volée”, senza dosaggio, caratterizzando pulizia e integrità. Sorprendente il Cuvée 60 Blanc, che ci ha colpito per profondità e carattere. Un dosaggio Zero, 100% Chardonnay, che permane 60 mesi sui lieviti indigeni e ha solfiti molto bassi, pari a 46 Mg/l (Limite legale U.E. max 185 Ml/l). Al naso sentori complessi ed evoluti, con delicati aromi di fiori bianchi, crosta di pane, burro e lieviti, mentre al palato la bolla si rivela morbida, fine, un sorso fresco rotondo, sapido, teso, complesso, con una bella lunghezza e persistenza. Oltre alla mortadella tagliata sottile, ho trovato entusiasmante abbinare il piccolo macaron con spuma di mortadella, crema di limone, miele e crumble di pistacchio; e i tortellini in brodo di cappone, di Anna Maria Barbieri, all’Antica Moka (Modena).