VAL D’AGRI: GLI ANCESTRALI VITIGNI NELL’ANTICA ENOTRIA
Nel suo scorrere verso il mare, l’Agri, secondo fiume per lunghezza della Basilicata, si rivela a tratti e gioca a nascondersi. Sgorga a nord, a Montemurro, a circa 140 chilometri dal mare, sinuoso fende la regione, scompare, ritorna e si snoda attraversando il centro di Marsico Nuovo, dove genera un piccolo lago artificiale, si allarga a Sant’Arcangelo, raccoglie le copiose acque del torrente Sauro, forma un altro bacino a Gannano, esce allo scoperto nella piana di Metaponto sfiorando il centro di Policoro e confluisce infine nelle acque salate del Mar Ionio, assolvendo a quel compito che ebbe nell’antichità, di via naturale che metteva in comunicazione Tirreno e Ionio. È Strabone a riferirci che in epoca romana l’Agri era più profondo e quindi ‘navigabile’ che è il significato in lingua osca del suo antico toponimo, una chiave di volta per scoprire la Val d’Agri, antica provincia della regione, collocata a sud di Potenza, a ridosso dell’Appennino Meridionale e del Massiccio della Maddalena, confine naturale con la Campania. Un luogo denso di spunti culturali, storici, paesaggistici, pronto ad accogliere visitatori colti e appassionati, per svelarsi intimamente in tutta la sua storia e la sua magnificenza.
Ecco, dunque, il Parco Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese, il penultimo parco nazionale italiano, istituito nel 2007. Ventinove comuni uniti in un’unica area naturalistica con 60.000 ettari di boschi, ricchi di querceti sempreverdi, boscaglie termofile di roverella, carpino bianco, frassino, orniello, ma anche faggeti, aceri di Lobelio, abete bianco, dove non è difficile avvistare lupi, cervi, caprioli, cinghiali, lontre. Destinazioni non consuete che mettono al primo posto l’ambiente e la cultura, dove riappropriarsi del rapporto con la natura, visitando il Lago del Pertusillo, le Murge di Sant’Oronzo, le aree naturali (abetina di Laurenzana, faggeta di Moliterno, oasi WWF pantano di Pignola), insieme a borghi, necropoli, castelli, servite da oltre cento strutture ricettive, ristoranti, agriturismi, cantine vinicole, aziende di prodotti agroalimentari, per vivere profondamente il territorio lucano e la sua appetitosa enogastronomia. Da non perdere il sito archeologico di Grumentum, una delle emergenze della regione assolutamente da vedere, sede anche del Museo archeologico. Un’area che conserva i ruderi della principale città romana della Lucania antica, fondata nel III sec. a.C., attraversata da Annibale nel corso della seconda guerra punica, uno straordinario esempio di impianto urbano romano dove sono ancora fruibili gli spazi pubblici e privati della città, con i suoi assi stradali antichi, il tempietto italico, la domus, i mosaici, l’area del Foro, le Terme e ai margini il monumentale anfiteatro in muratura, uno dei più antichi. Per lungo tempo un centro nevralgico, che intorno al V secolo d.C. verrà progressivamente abbandonato, probabilmente a causa delle incursioni dei Saraceni.
Radici profonde che confermano le antichissime origini di questa regione, che insieme alla Calabria e alla parte sudorientale della Campania, costituiva il cuore dell’antica Enotria, dal greco ôinos (vino), per i floridi e copiosi vigneti che erano presenti nel territorio, mentre i suoi abitanti, gli Enotri, ritenuti di provenienza greca, rappresentano per alcuni storici, i più antichi colonizzatori di quest’area.
Ogni località della Val D’Agri ha qualcosa da raccontare, ogni luogo nasconde una vicenda storica da ricordare o qualcosa che è bello sapere. Moliterno è un paese famoso per la coltivazione delle viole e per il formaggio Canestrato Dop; Sarconi è noto fin dall’800 per la produzione di fagioli tipici, coltivati in più di 20 ecotipi diversi; Tramutola è un piccolo centro dove si lavano ancora i panni a mano come una volta, nel lavatoio della piazza; a Viggiano sede del Museo del lupo, sopravvive un culto profondo verso la Santa Madonna nera, patrona del Sacro Monte, ricordata ogni anno con una sagra, a maggio e a settembre; a Castelsaraceno c’è il ponte tibetano più lungo del mondo, con i suoi 585 metri di lunghezza e 80 di altezza, a collegare il Parco nazionale del Pollino a quello dell’Appennino Lucano-Val d’Agri Lagonegrese; mentre Aliano in provincia di Matera è la località dove lo scrittore Carlo Levi dal ’35 al ’36 trascorse il periodo di confino imposto dal regime fascista, un paese rurale, che nel 1945 ispirò il suo romanzo Cristo si è fermato a Eboli. Un’esperienza di privazione della libertà che anche oggi colpisce e scava dentro, da rivivere visitando la casa museo dove l’intellettuale visse.
Una tavola ricca quella della Val D’Agri, con ingredienti tipici come i Peperoni Cruschi di Senise Igp, il Caciocavallo podolico di Viggiano, l’Olio di Missanello ottenuto da olive maiatiche, la Melanzana rossa, il Prosciutto di Marsico Vetere, le Soppressate, la Salsiccia pezzente e piatti della memoria di sicuro interesse per i gourmet, come la Crapiata Materana, una zuppa di cicerchie, fave, fagioli, ceci e piselli, grano, patate e pomodori; la Cicoria selvatica lucana con purea di fave; il Ciambotto, uno stufato di verdure; la Strazzata, una focaccia con semola di grano e pepe; la Fucuazza, una focaccia simile a quella barese con salsa di pomodoro; le Cartellate, dolcetti fritti tipici al miele; la Torta di ricotta di pecora.
Sono ovviamente anche luoghi fortemente vocati alle produzioni vitivinicole e non poteva che essere così, vista la millenaria tradizione che li lega al nettare di Bacco. Un tema che lo scorso 22 marzo, è stato oggetto di un evento di caratura nazionale presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze. Nella prestigiosa sede istituzionale è stato presentato il volume “Fra le montagne di Enotria” Forma antica del territorio e paesaggio viticolo in Alta Val d’Agri a cura di Stefano Del Lungo, realizzato in seguito alla più ampia ricerca su l’Enotria, Grumentum e i vini dell’Alta Val d’Agri. Nel volume edito dall’Istituto Geografico Militare, il curatore Stefano Del Lungo, archeologo, ricercatore CNR ISPC, responsabile del gruppo di ricerca misto (CNR, CREA e professionista dei settori archeologico e archivistico) che tra il 2021 e il 2022 ha elaborato i risultati dell’indagine, ha anticipato i contenuti della pubblicazione, i quali gettano una luce nuova su ciò che si conosceva dell’origine dei vitigni in questa parte dell’Italia, così importante dal punto di vista enologico.
Un gruppo di lavoro di alto profilo, costituito da archeologi, agronomi, archivisti, ricercatori, enologi, con Antonio Affuso, Vittorio Alba, Angelo Raffaele Caputo, Teodora Cicchelli, Pasquale Cirigliano, Marica Gasparro, Dorangela Graziano, Agata Maggio, Francesco Mazzone, Addolorata Preite, Sabino Roccotelli, Annarita Sannazzaro, Francesco Pisani, che con le loro notevoli competenze hanno affiancato nella corposa opera il curatore. La ricerca mette in discussione un vero e proprio assunto, un elemento ricorrente in tutte le più prestigiose pubblicazioni enologiche, quello che il vino sia arrivato in Enotria – l’area che comprende l’odierna Basilicata, la parte orientale della Campania e la Calabria – grazie ai primi coloni greci, per poi diffondersi nel resto della penisola. Una lunga ricerca e una fitta documentazione contenuta nel volume, attesta invece il contrario, seguendo passo passo le orme dei Greci e dei Romani nell’esplorazione degli Appennini, alla ricerca proprio di quelle uve e di quei vini che poi porteranno con sé in patria. Sono 7 capitoli densi nei quali scopriamo che l’Alta Val d’Agri, è terreno fertile di notevole interesse durante le esplorazioni greche e l’occupazione dell’entroterra lucano da parte dei Romani. All’inizio, intorno al VIII secolo a.C., quando la dominazione della Val D’Agri, non è ancora iniziata, i Greci si attestano sulle isole e sulle coste, temendo un entroterra ostile, pericoloso, incolto, ci confermano i versi dell’Odissea di Omero e quando giungono nell’interno, che sentono chiamare oinòtra e rinomineranno Enotria, non si aspettano di trovare coltivazioni di vite. I Greci si accorgono che quei luoghi non sono abitati da barbari come pensavano, viceversa quella che hanno davanti è una civiltà evoluta, che conosce il vino, il ferro, il rame. Tra il IX e gli inizi del V a.C. questi antichi vitigni, cominciano a viaggiare verso nord, confermando la centralità della viticoltura nella società di allora che è fiorente, come gli archeologici confermano dai ritrovamenti funerari, tra il Massiccio del Pollino, la fertile Sibaritide e la vallata del Sinni, si coltiva con successo il Sangiovese, che arriva dalle terre messapiche prossime alla dorica Taranto e prima di intraprendere il suo viaggio verso la Sicilia e di risalire la costa tirrenica, lascia una numerosa discendenza tra il Basento e il Sinni. Questa a sua volta sarà progenitrice di varietà che tra V e IV secolo a.C., grazie ai Lucani e ai Sanniti, percorreranno l’Appennino sino all’Italia centrale. Nei dintorni di Policoro, si coltiva il Siritide e il Sirino o Serino, facendo riferimento al nome di un fiume e un monte vicini, mentre nelle valli limitrofe prosperano vitigni simili e il progenitore dell’Aglianico, tuttavia vitigni e vini della zona del Cilento nel VI e V secolo a.C. arriveranno ben più lontano, fino a Marsiglia e con i Greci fino nella valle del Rodano, dove per lungo tempo il vitigno si chiamerà Serine, prima di modificarsi in Syrah e prima che i Romani lo sostituiscano in Siriaco, mantenendo un legame con le regioni campana e lucana. Lo certifica il volume, nel quale approfondite e documentate ricerche, hanno intersecato con autorevolezza la genetica storica, comparando vecchie varietà di vite dell’entroterra appenninico, l’archeologia, le scienze biologiche e agronomiche, mettendo a confronto le caratteristiche ambientali, i caratteri ampelografici, la topografia antica delle vallate fluviali, la biodiversità vegetale resa in terracotta e metallo, le cantine in grotta. Una vera e propria indagine investigativa con professionisti e tecnici di nome, che giorno dopo giorno ha lasciato trasparire quanto fosse opinabile la teoria, mai messa in discussione prima, che fossero stati i Greci a introdurre nella penisola italica la coltura e la civiltà della vite, attestando che viceversa essa era già fortemente radicata. Il vino dell’Alta Val d’Agri ha origini antichissime, lo conferma Omero, che lo definiva “bevanda divina” tra le pagine dell’Odissea e lo conferma Plinio che in epoca romana scriveva del vino Lagarinum prodotto dai vigneti di Grumento Nova (allora Grumentum). Ma è anche un’area vitivinicola montana che esprime un’habitat ideale, grazie al sole del sud e alle escursioni termiche tipiche dell’Appennino, che come dimostra uno studio intrapreso nel periodo 2011-2018, riscontra analogie con un’altra regione vinicola del pianeta, riconosciuta tra le più vocate al mondo, quella del Rio Negro in Patagonia (Argentina). In quell’area si produce circa il 3% della produzione vinicola totale del Paese, le temperature notturne sono molto basse e vi sono sensibili variazioni di temperatura giorno-notte, tali da caratterizzare produzioni di pregio. All’evento presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze è seguita una degustazione a cura del Consorzio di Tutela della Doc Terre dell’Alta Val D’Agri, una realtà associativa che riunisce 8 aziende che si sviluppano all’interno del Parco Nazionale dell’Appennino Lucano, Val d’Agri e Lagonegrese, in un’ambiente lussureggiante ricco di biodiversità, dove si pone grande attenzione alla promozione di attività agro-silvo-pastorali tradizionali, monitorando accuratamente la qualità dell’acqua e dell’aria. Le etichette commercializzate sono 15, di cui 13 Doc Terre dell’Alta Val D’Agri e 2 IGT Basilicata, con una produzione di circa 100.000 bottiglie all’anno, mentre i vigneti del “Terre dell’Alta Val d’Agri” si originano nei comuni di Viggiano, Grumento Nova e Moliterno a circa ottocento metri di quota, su terreni di medio impasto, dando vita a vini che esprimono armonia, struttura, corpo e un’interessante capacità di invecchiamento. Le tre tipologie prevedono: il Rosso, con invecchiamento minimo di un anno; il Rosso Riserva che invecchia due anni di cui almeno sei mesi in botti di legno e il Rosato che può contenere anche uve Malvasia di Basilicata. La degustazione ha consentito di scoprire alcune micro-vinificazioni di antichi vitigni autoctoni lucani realizzate dal CREA Viticoltura ed Enologia di Turi (BA), come lo sconosciuto rosso Colatamurro e i bianchi Giosana e Ghiandara (o Aglianico bianco), in abbinamento a piatti e specialità tipiche lucane.
terredellaltavaldagri.it
Photo credits Archivio APT Basilicata