KAMIKI VS KURA. WHISKY GIAPPONESI A CONFRONTO
In questo folle 2020, anche prodotti molto richiesti come i whiskies provenienti dal Paese del Sol Levante hanno avuto inevitabili contrazioni di consumo. Quella del whisky giapponese sembra però una “moda” destinata a durare ed è facile prevedere che, alla ripartenza dei mercati, i distillati nipponici si presenteranno in pole position sulla lista degli ordini di bar ed enoteche. Ho voluto mettere a confronto due delle referenze di maggior successo nella categoria: il Kamiki e il Kura, entrambi distribuiti in Italia da Rinaldi 1957.
Il Kura è un whisky della Distilleria Helios sull’isola di Okinawa. Fondata nel 1961 e situata nella parte settentrionale dell’isola, quella più selvaggia e incontaminata, la Helios è divenuta famosa per la produzione di rum (come retaggio culturale della presenza americana) e di awamori, un distillato di riso thailandese che si produce in loco da almeno sei secoli. Negli anni l’azienda si è ingrandita ed ha iniziato a produrre di tutto (oggi anche una birra), sbarcando ovviamente anche nel fiorente mercato del whisky.
Il Kura The Whisky – Rum Cask Finish è un blended whisky senza definizione d’età, invecchiato in botti di rovere bianco americano e finito in botti di rum. Ha 40% di volume alcolico e dovrebbe contenere tagli di whiskies distillati localmente in due luoghi diversi (il condizionale è d’obbligo, visto che ben poco è dato sapere sul reale operato di molte distillerie nipponiche: quanto whisky comprano all’estero e quanto è prodotto sul posto?): una parte proveniente da Hokkaido e lavorato con torba locale (dalle caratteristiche assai simili a quella scozzese, ma presente in minime quantità) e una parte con single malt realizzati sulla stessa Okinawa. Il blend viene poi fatto maturare in botti ex bourbon, con un finishing in botti ex rum della stessa Helios. L’impatto olfattivo è molto intrigante: attacca dolce, con note di miele e di vaniglia, poi esce un piacevole ammandorlato insieme alla parte cerealicola, con un sottofondo di scorza di agrumi e una lievissima affumicatura. Al palato è equilibrato, abbastanza morbido, ma non lo definirei “piacione”. Attacco dolce anche qui, ma una buona acidità gli da contrasto, ancora con agrumi e un finale di discreta lunghezza e finezza, dove emergono note di caramello e spezie.
Il Kamiki, dell’omonima distilleria, è invece un prodotto dalle caratteristiche uniche. Prodotto nell’antica capitale di Nara, è un blended malt whisky affinato in botti di yoshino sugi, ovvero cedro Giapponese, un legno morbido e profumato usato da secoli per la costruzione di templi. Kami-Ki significa “respiro di dio” e fa riferimento al sacro Monte Miwa che troneggia sulla città. Il blend è ottenuto da whiskies di malto altamente selezionati prodotti sia in Giappone che all’estero, che fanno una seconda maturazione in queste botti di cedro. Mi aveva già impressionato la prima volta, in occasione dell’assegnazione del premio come “Best World Whisky” nell’ambito del Roma Whisky Festival, in una degustazione tenutasi a marzo presso il punto di incontro di tutti gli appassionati romani, il Whisky&Co. di Via Margutta. Si è confermato ad un secondo assaggio più recente. Al naso è molto complesso: spezie e legno balsamico in evidenza, cannella, zucchero di canna, toffee, miele, popcorn e sentori netti di sandalo e tè verde. Davvero intrigante! In bocca è equilibrato, giocato su toni dolci, con un alcol molto ben integrato (fa 48%) e un finale dove torna la balsamicità e l’affumicato. Ha una buona persistenza, anche se non lunghissima, e fa dell’armonia generale il suo punto di forza. Un whisky elegante e delicato insomma.
Chi vince? Difficile dirlo. Sono entrambi prodotti interessanti che testimoniano la grande qualità del whisky nipponico, ma soprattutto la loro estrema piacevolezza complessiva che ne giustifica il successo commerciale. Dovendo per forza esprimere una preferenza, voto per il Kamiki, a cui do un bonus per i profumi davvero originali e coinvolgenti.