ALESSANDRO PANICHI: CUCINA, RAGIONE E SENTIMENTO
“Quando la maestra delle elementari mi chiedeva cosa avrei voluto fare nella vita, le rispondevo il cuoco, ed è andata proprio così”. Alessandro Panichi è di Sarzana in provincia de La Spezia e ama il cibo da sempre. Fin da bambino osserva quelle materie che grazie alle mani sapienti della mamma e della nonna si trasformano, guarda il fuoco che imbiondisce la cipolla e rosola le carni, la farina e il lievito che diventano pane, l’acqua che freme nella pentola, pronta ad accogliere qualcosa di inanimato, che diventerà saporito e voluttuoso, a condire momenti unici e irripetibili, mentre si fa strada in lui il desiderio di apprendere le tecniche all’origine di quei piatti, che imbandiscono la tavola e danno gioia. Sarà il la per iniziare un percorso lavorativo e umano con un unico e chiaro obiettivo, diventare cuoco, nel quale non verrà mai meno la voglia di conoscere ed entusiasmarsi, che oggi trova compimento nel suo ruolo di executive chef al ristorante Sotto l’Arco di Villa Aretusi a Bologna, un gastronomico con soli venti posti, dove cenare è un’esperienza.

Alessandro Panichi
Panichi vi arriva nel 2011 chiamato dal restaurant manager Giuseppe Sportelli, più volte miglior maître d’Italia e fiduciario per l’Emilia dell’associazione A.M.I.R.A. (Associazione Maître Italiani Ristoranti ed Alberghi). Un’insegna per palati fini, a cui si affianca la trattoria Aretusi, con lo chef Manuel Priori, incentrata sui piatti iconici della città delle Due Torri e l’albergo, ricavato nel vecchio fienile.
Gli incontri di Panichi con i grandi maestri della cucina italiana, come Gualtiero Marchesi, si fondono in una proposta gastronomica che contiene acute riflessioni sulla cucina bolognese e sulla tradizione regionale italiana, un viatico per conoscere le suggestioni della città dove ha sede la più antica Università del mondo e hanno vissuto Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Guglielmo Marconi, Giorgio Morandi, Francesco Guccini, Gianni Morandi, Lucio Dalla. Due insegne collocate all’interno di una villa del ‘600 con un grande parco e una terrazza, da cui godere della vista della basilica di San Luca, un’antica residenza nobiliare, che fu la magione del pittore bolognese Cesare Aretusi, adagiata nella prima periferia di Bologna, rilevata nel 2006 dalla famiglia Caselli, che dopo un importante restauro conservativo, vive ora un nuovo rinascimento.
Ripercorrere il vissuto di Panichi (classe 1978) è un po’ come entrare in punta di piedi in alcune delle insegne che hanno fatto la storia. “Finite le scuole medie pensavo avrei fatto Ragioneria, perché andavo molto bene in matematica” ricorda Panichi, “poi dopo un campeggio con la parrocchia decisi per l’istituto alberghiero di Lerici, vincendo le resistenze di mio padre, che mi metteva di fronte al poco tempo libero, agli orari complicati e alle difficoltà di questa professione. Fu un periodo bello, nel quale imparavo le tecniche e il perché dei procedimenti, ma anche spensierato, la scuola guardava al mare e all’inizio dell’estate noi allievi appena potevamo scappavamo in spiaggia, per assistere al passaggio non così raro di delfini e balenottere”. Sono ancora gli anni nei quali la scuola alberghiera non viene presa troppo sul serio, ci sono molti bocciati, ed è la seconda scelta per chi non riesce in altri ambiti, non come oggi. Ma Panichi continua ad alimentare la sua passione per la cucina, mentre studia, a quattordici anni collabora nei locali della zona e a sedici ha già fatto il primo stage al Saraghino di Ancona da due storici secondi chef di Uliassi, la prima occasione che gli si presenta di vedere una vera brigata al lavoro, con nove elementi all’opera, uno alla pasta fresca, uno al cambio dell’olio per i fritti, uno alla griglia… non è uno dei ristorantini con uno chef e un ragazzino, che aveva visto fino ad allora, esperienze che per lui sono conferme che quella è la strada da intraprendere.
“Da sempre avevo una vera e propria predilezione per Gualtiero Marchesi, i miei amici stravedevano per i calciatori e il mio sogno era poter lavorare accanto a lui, così quando il mio professore di quarta, mi chiese dove volevo fare lo stage, risposi a Torre Boldone (Bergamo), da Antonio Ghilardi, uno dei primi chef allievi di Marchesi in Bonvesin de la Riva, che si era messo in proprio. Andai animato dall’idea di imparare il più possibile. Lo stage andò bene e nel ’97 una volta diplomato, Ghilardi mi propose di restare con lui per otto mesi e così feci, poi una sera telefonò a Gualtiero Marchesi, sapeva quanto ci tenevo a conoscerlo, ma in quei mesi erano al completo con il personale. Non era ancora il momento di incontrare il mio mito. Allora mi suggerì di andare a Torre dei Galluzzi e poi alla Pernice e la gallina in via della Badia, a Bologna, da Marco Fadiga, vi rimasi fino al 2000 imparando tanto, in particolare le basi francesi”. Poi finalmente arriva un’occasione propizia. Grazie a una lettera che Fadiga scrive a Marchesi, si origina l’opportunità di partecipare a una selezione con otto candidati per un posto da stageur. Fu preso e dopo un breve periodo di prova assunto. “Fu un incontro totalizzante, ogni gesto di Marchesi aveva un senso, ogni suo pensiero si traduceva in un atto creativo. Eravamo 23 in cucina e 18 in sala, i vari reparti si muovevano all’unisono, la pasticceria panificava due volte al giorno, produceva i cioccolatini, i dessert e i gelati; fino al pesce, che richiedeva maggior impegno in assoluto, con gli arrivi quotidiani del fresco, che una volta pulito, diventava ingrediente per antipasti e secondi”.
Fu fondamentale quel periodo accanto a Marchesi, Panichi fece esperienza in tutte le partite, cercò di assorbire tutto del suo lavoro e del suo essere, le tecniche, i perché di certe scelte, i risvolti umani, le sfumature. “In quel periodo c’erano Crippa e Lo Priore, eravamo una famiglia, tanto che dopo poche settimane dal mio arrivo, il giorno del mio compleanno si avvicinò il signor Marchesi, dicendomi che c’era un pensiero per me in ufficio. Aveva scelto una cravatta, una bottiglia e scritto un biglietto di suo pugno, rimasi senza parole, lo conservo come una reliquia. Restai per un anno e sette mesi, andando per conto di Marchesi sulla Costa Crociere, in Germania e nel ristorante che aprì a Parigi con Salmoiraghi, ho avuto fortuna, sono riuscito a vedere in azione alcuni suoi fedeli seguaci che poi sono diventati famosi, interpretando la sua cucina a modo loro”.
Dopo Marchesi è all’Antica Osteria del Teatro di Piacenza, dove conosce Filippo Chiappini Dattilo, che aveva lavorato con Georges Cogny ed è un’immersione profonda nella cucina francese e nel foie gras, materia nella quale eccelleva. Torna a Bologna, va ad Alassio e poi a Torino, alla Locanda Mongreno, da Pier Bussetti, che era stato accanto ad Adrià, dove può assorbire le influenze spagnole della cucina internazionale e grazie a lui conoscere Bob Noto raffinato fotografo gourmet e quel mondo di palati straordinari connessi a lui. Dopo un anno, conquistano la stella. I mesi successivi un’altra esperienza importante alla Locanda dell’Angelo dal signor Stefano, figlio di Angelo Paracucchi, che era già venuto a mancare, un monumento della cucina italiana: “fu straordinario poter consultare il ricettario della famiglia Paracucchi, con le ricette scritte a mano dal signor Angelo, alcune come la salsa scapece o l’insalata della salute (un pesce al vapore con frutta esotica), da lasciare assolutamente così, altre da cogliere come spunti straordinari da cui partire, una cucina che dava valore all’olio, all’orto, alle materie, a cui molti chef si sono ispirati. Grazie al maître storico, nativo di Sarzana come me, che aveva iniziato con Paracucchi all’età di quattordici anni, ho potuto conoscere il lavoro straordinario di questo grande cuoco, amato e riverito dal mondo gastronomico dell’epoca. Anche la colazione era speciale da Angelo Paracucchi. La sua abitudine di iniziare la giornata con due cappuccini venne assecondata da Richard Ginori che disegnò una tazza più grande dedicata a lui. Grazie a quel ricettario prezioso ho potuto rifare le tagliatelle Montecarlo con gli stampi originali che trovai in cucina, tutto era rimasto come quando c’era lui alla fine degli anni ’70, aveva una trentina di dipendenti ma anche quando c’erano i periodi di crisi non licenziava mai nessuno, facevano parte della famiglia, teneva i corsi di gelateria e i gelati venivano preparati con la chantilly, amava talmente l’opulenza e il buono che non sempre i conti tornavano, il contatto con il denaro non era per lui, ma c’era un rispetto unico per l’ospite che doveva ricevere sempre il massimo. Ricordo una cantina straordinaria, faceva l’aceto balsamico, aprì la scuola di pasta fresca in Giappone, ha disegnato la lampada per cucinare le crepes in sala firmata Alessi, in quel periodo venne a trovarci il maestro di cerimonia del Quirinale il sig. Gozzi, che stette lì qualche tempo, conosceva molto bene Paracucchi, si scambiavano impressioni sul servizio e sulla cucina, si confrontavano, avevano clienti in comune. È stato un privilegio conoscere persone che avevano girato così tanto, portando la cucina italiana nel mondo”.

Villa Aretusi
Dopo La Locanda dell’Angelo, grazie a Marco Fadiga continua con una consulenza all’Hotel Duomo di Rimini, un boutique hotel di design ideato dall’architetto israeliano Ron Arad, dove conosce la sua attuale compagna e madre dei suoi figli. Torna nuovamente a Bologna con lei, rimane sei mesi con Guido Haverkock per l’apertura dei Portici, qualche mese al Divinis dietro alla stazione, fino al 2011 quando viene chiamato dal grande maître Giuseppe Sportelli, per un incontro al Villa Aretusi: “il progetto era interessante e in divenire, il posto molto bello, erano previsti cambiamenti e investimenti e decido di accettare. Dopo due anni, aprimmo la trattoria a fianco del ristorante gourmet, che andò a regime velocemente, mentre nel gastronomico ci fu bisogno di più tempo, ma ora siamo contenti, giorno dopo giorno rivedo quei clienti per cui cucinavo venticinque anni fa con Fadiga”.

Trattoria Aretusi
Cenare qui è un’esperienza che si ricorda per la qualità della proposta e l’armonia con cui si fondono il lavoro della sala e della cucina, grazie al restaurant manager Giuseppe Sportelli, all’executive chef Alessandro Panichi, allo Chef de cuisine in trattoria Manuel Priore, al Maestro di sala in trattoria Gianni Roncone, al sommelier Nicola Castellano e a uno staff competente e attento. Appagante e territoriale, la Trattoria Aretusi è un’occasione per assaporare la tradizione bolognese più autentica, le materie prime sono stagionali e local e le ricette sono state oggetto di uno studio accurato, perché ricalchino la vera cucina emiliana.
Si comincia con le fragranti tigelle e le eteree e dorate crescentine fritte, da farcire con un ottima selezione di salumi emiliani; poi il goloso e ormai scomparso stecco bolognese, sfizioso spiedino con cubetti impanati e fritti di lonza di maiale, emmenthal e mortadella; i sontuosi tortellini in brodo di cappone; i tortelli di ricotta al balsamico; la gramigna al torchio, con salsiccia, pepe, profumo di finocchietto, vino, aglio; le tagliatelle fatte a mano con ragù di diaframma, spalla di manzo, pancetta o gola e spalla di maiale; la cotoletta alla bolognese con carne di vitello fritta nel burro e nell’olio, ripassata in padella con il brodo e guarnita con prosciutto, parmigiano, punta di pomodoro e fondo di manzo; per chiudere con la pinza, una frolla tradizionale leggermente montata, ripiena di marmellata Cavazza ‘latta rossa’, noci, frutta secca, fichi caramellati, vino; la zuppa inglese, con savoiardi, alchermes, crema gialla, scaglie di cioccolato; la tenerina, con cioccolato fondente e burro, dalla ricetta della suocera bolognese di Alessandro.

Sotto l’arco
Salendo di un piano c’è il ristorante gastronomico Sotto l’arco, regno di Alessandro Panichi, un’affidabile meta gourmet, con una cucina di ricerca, tutta tecnica e mestiere. Un menù che è sperimentazione pura, dove i piatti vengono messi in carta dopo infiniti tasting, ed ecco il Tortellino né panna né brodo, la Tagliatella crispy ragù, il Tortellone invidioso, la Petroniana geometrica di vitello con tartufo nero e poi l’inarrivabile Spaghetto al frutto della passione, che è uno dei signature. Si ottiene con la tecnica dell’idratazione, mettendo lo spaghetto sottovuoto con un liquido composto da frutto della passione, acqua e sale, per un periodo che va dai due agli otto giorni, lo spaghetto si cuoce, diventa bianco e morbido, assorbe parte del contenuto, poi viene ripassato in padella per un minuto e mezzo, quando bolle si manteca con il burro e si completa con ostrica Gillardeau e alga nori. Un piatto ispirato allo spuntino dei pescatori liguri, che è un’autentica esperienza. Grande equilibrio, armonia e piacevolezza, con un morso che è tutta freschezza, note iodate e citrine, ma nelle prossime settimane, verrà sostituito per qualche tempo con una mezzamanica realizzata con il medesimo procedimento. La ricerca continua…
villa-aretusi.it
Photo credits Stefano Caffarri