SULLE TRACCE DEGLI ETRUSCHI

Un viaggio nei dolci paesaggi della Tuscia, a Cerveteri, nella necropoli patrimonio dell’Umanità, un’eterna scoperta.

 

I passi sono morbidi sul tappeto di aghi di pino. Le cicale ancora allietano con la loro musica una mattinata di tarda estate. Gli umani ci sono, sì, ma in silenzio si aggirano in quella che era (ed è) la città dei morti. Ecco la necropoli etrusca della Banditaccia, patrimonio Unesco dell’Umanità, Cerveteri, provincia di Roma, da cui dista un’oretta di auto. Qui c’era la città di Caere (per i latini) che gli Etruschi chiamavano Kaisra/Keisra e i Greci Agylla, il più importante centro etrusco dopo Veio, fondate entrambe (forse) dal leggendario popolo dei Pelasgi, migranti provenienti dalla Grecia.

 

Patrimonio dell’Umanità

La necropoli monumentale visitabile si estende per circa dieci chilometri e risale a un intervallo cronologico che va dal IX al II secolo a.C., un periodo lunghissimo durante il quale le “tendenze” sepolcrali degli Etruschi sono cambiate e noi oggi possiamo leggerle in tutta la loro suggestione. Pensiamo a quanta vita c’era in questa città dei morti, omaggiata, curata, trasformata da quegli uomini antichi nella speranza di un possibile Aldilà cui credevano fermamente, riproducendo la pianta e gli arredi delle abitazioni costruite per i vivi, all’interno di un pianoro tufaceo.

Le tombe più antiche, narrano gli scavi, effettuati in due grosse riprese, dal 1909 al 1933 da Raniero Mengarelli, e nel dopoguerra da Mario Moretti (gli esperti le chiamano vecchio e nuovo recinto) sono del tipo a pozzo, ovvero le ceneri dei defunti sono conservati in vasi biconici e poi infossati. Dal VII secolo a.C., però, succede qualcosa: per chi abbandona la vita terrena vengono progettati grandi tumuli con camere funerarie scavate appunto nel tufo ed equipaggiate con raffinate decorazioni ispirate alla personalità dell’ospite e all’architettura domestica. Queste strutture circolari che come onde si affacciano tra la vegetazione mediterranea e ricordano una sorta di capanna, sono utilizzate da più generazioni di una stessa famiglia, ovviamente di un certo livello sociale. I ricchi corredi recuperati dagli archeologi mostrano suggestioni greche e del Vicino Oriente, in un’epoca in cui gli scambi commerciali dovevano essere intensi così come le integrazioni tra le culture.

 

Evoluzione sepolcrale

Alla Banditaccia altre sorprese attendono il viaggiatore. A un certo punto del percorso si incappa nell’area adibita alle cosiddette tombe a dado, piccole-medie, che si affiancano a quelle a tumolo. Sono più regolari, geometricamente composte e allineate lungo le vie di questa straordinaria città monumentale: la loro datazione è attorno al VI secolo a.C. ma la loro sistemazione non è solo una questione architettonica: per gli studiosi testimoniano una società più egualitaria della precedente. Non ci sono più grandi tombe, simbolo di potere e ricchezza, ma tumoli standard, per tutti. Questo è il periodo in cui gli Etruschi si espandono parecchio e colonizzano la Pianura Padana e la costa adriatica. E arrivano a Roma, con diversi re alla guida della città.

Dopo il IV secolo ancora trasformazioni sepolcrali: lo spazio superficiale è sempre più limitato e si inizia a scavare, con la creazione di ipogei cui si accede con scale più o meno lunghe. Dentro, un tripudio creativo, come i decori e gli stucchi dipinti della Tomba dei Rilievi, che si può ammirare da una vetrata blindata: una tomba collettiva, c’era posto per 31 defunti.

 

L’incanto prosegue in città

A qualche km di distanza, il magnetismo etrusco si declina in differente modo, nel Museo Nazionale Cerite, all’interno della rocca medievale del XII-XIII secolo della attuale Cerveteri, borgo in cui ritrovare un mix tra la dolcezza delle colline disegnate nel tufo e l’aria marina del litorale tirrenico poco distante.

Il museo ha un percorso di visita multimediale, curato da Paco Lanciani e Piero Angela la cui voce racconta da diverse teche la storia di alcuni oggetti della collezione, tra cui importanti Kylix, i piatti per il vino spesso rinvenuti illegalmente, come il cratere con la morte di Sarpedonte (re della Licia figlio di Zeus ucciso dai Greci durante la guerra di Troia): un pezzo unico, risalente al 520/510 a.C., trafugato, venduto più volte, anche al Metropolitan Museum di New York che lo ha restituito all’Italia nel 2008.

 

 

Una pausa sulle dolci colline della Tuscia laziale

 

A nemmeno 50 km da Roma, Terme di Stigliano, a Canale Monterano, erano frequentate da Etruschi e Romani e dopo un salto in questo incredibile passato, niente di meglio di una pausa rilassante raggiungibile in circa mezz’ora di auto da Cerveteri, nel cuore della Tuscia.

Photo credits Giulio Riotta

Gli ingredienti per un benessere totale ci sono tutti e ruotano attorno a certe acque che sgorgano dal terreno a una temperatura tra i 36 ai 41 gradi centigradi. Si tratta di un’acqua salso-iodico-sulfurea. Il che significa: benefica azione purificante e lenitiva per la pelle, molto efficace per dermatiti, psoriasi, acne, perfetta come cicatrizzante e per ridurre edemi e prurito. Lo sapevano bene anche gli Etruschi, frequentatori delle Terme di Stigliano, ma furono i Romani, altri grossi estimatori dei poteri idrici, a dar loro questo nome: chiamarono le acque “Thermae Stygyane ”, a paragone delle magiche e potenti acque della leggendaria palude Stigia, che formata dal fiume Stige, aveva tante qualità come quella di dare il potere dell’invulnerabilità… fu qui che la ninfa Teti immerse il figlio neonato Achille per renderlo pari agli dei, lasciando però “scoperto” il tallone la cui vulnerabilità, successivamente, gli fu fatale.

Photo credits Giulio Riotta

Fatto sta che, narra Plinio nelle sue memorie, attorno al I secolo d.C ., le legioni romane, di ritorno dall’Egitto, non potevano entrare in Roma se prima non fossero passate da Stigliano per purificarsi. E sotto Tiberio, le “Acquae Stygianae” erano una tappa termale importante per tutti i vip dell’epoca.

Luogo considerato il top anche durante il Medioevo, nei diversi documenti dei vari proprietari, come i principi Orsini e gli Altieri, si descrivono le virtù di queste acque, utili anche per malattie delle ossa e i reumatismi.

Photo credits Giulio Riotta

Per i quali, oggi, alle Terme di Stigliano, si utilizzano i fanghi prodotti dalle acque, a temperature tra i 48 e i 50°C che nonostante il calore sono ben tollerati dall’organismo alleviando i dolori e permettendo la ripresa funzionale delle articolazioni colpite, assieme alla massoterapia ed alla rieducazione attiva in piscina termale.

 

Come gli antichi Romani

Photo credits Giulio Riotta

Da non perdere alle Terme di Stigliano la Grotta Sudatoria in cui il calore e il vapore dell’acqua che giunge qui grazie all’antroterapia crea un particolare microclima che migliora l’attività respiratoria e cardiaca, eliminando sostanze tossiche e stimolando il metabolismo. E da non dimenticare la SPA, che ruota intorno al Percorso Romano. Questo include tiepidarium (36°C), calidarium (42°C), sauna finlandese (70°C), aromarium (36°C) con essenze della Tuscia e zona relax con area tisaneria. L’esperienza è completa con un passaggio nella vasca termale semicoperta che dal portico si estende verso l’esterno con affaccio sul parco e l’idromassaggio termale dalle proprietà drenanti e rilassanti.

 

Nel Parco in piena natura

A proposito del parco, anche detto Bagnarello: sono 20 ettari con 600 metri quadrati di specchi d’acqua affacciati sui monti della Tolfa, al limitare della Riserva Naturale Monterano. Presente un percorso trekking interno e tanti sentieri da vivere con tutti i sensi, in una natura ancora incontaminata tra aceri, lecci, querce centenarie, noccioli, roveri, tamerici, pini romani scelti come rifugi da aironi, falchi, civette, istrici, tassi, volpi, donnole e faine che non di rado si mostrano agli occhi dei visitatori. Una chicca verde è costituita da uno spontaneo boschetto di bambù con canne alte anche 10 metri: 500 mq di pura pace in cui è stato ricavato uno spazio, un piccolo salotto, in cui “darsi” a massaggi e trattamenti o da usare come location deliziosa per piccoli eventi.

 

Non è finita qui

Photo credits Giulio Riotta

Le Terme sono anche albergo con stanze dalle diverse tipologie per soddisfare qualsiasi esigenza di spazio e di comfort. E, naturalmente, anche il gusto ha il suo tempio: è il Ninfeo, storico ristorante affidato alle sapienti mani del maestro Antonio Sciullo, con proposte enogastronomiche legate alle eccellenze del territorio della Tuscia laziale, nel pieno rispetto del ritmo delle stagioni: dal carciofo ai fagioli, dalle patate alle ciliegie alle castagne e alle nocciole. Con mensili menù per cene di degustazione che ruotano attorno a un ingrediente protagonista, affiancato di volta in volta da diverse cantine e vini sempre differenti, raccontati e spiegati da un enologo professionista. Qualche idea per stuzzicare il palato: Tagliolini al mattarello con funghi di bosco e tartufo nero, mantecati con caciocavallo di grotta, filetto di maiale all’aceto di frutti di bosco, melograno e pistacchi con cicorietta e patate, Monte bianco in guscio di meringa, con castagne caramellate e salsa di cachi… ma questa è davvero un’altra storia. Ispirazioni al link termedistigliano.it.

 

 

A Borgo del Sasso passato e presente danno spettacolo

 

Sopra Cerveteri nella strada che porta verso il Lago di Bracciano, il Medioevo fa la sua comparsa tra rocce e ricca vegetazione mista: è il Borgo del Sasso, alle falde del Monte Santo, 311 metri di altezza, a nemmeno 10 km dalla via Aurelia, 70 km da Roma.

In realtà anche qui c’erano gli Etruschi, poiché sono stati trovati reperti del VI secolo a.C. ma già uomini dell’età del ferro amavano questi luoghi grazie alla presenza di acque sulfuree, le

Aquae Calidae Caeretanae, sfruttate pure dai Romani in età giulio-claudia-traianea. Del Sasso ne parlano Tito Livio e Strabone. I resti delle terme si trovano in località Pian della Carlotta mentre lo scheletro di un nostro antenato preistorico, con il cranio portante i segni di una trapanazione, ora al museo Pigorini di Roma, fu scoperto in una grotta del Monte delle Fate da Saverio Patrizi ne 1933, la cui famiglia aveva comprato il luogo alla metà del 1500 dall’Ospedale di S. Spirito in Sassia proprietario di tutta una vasta tenuta agricola passata in più mani dal XII secolo in poi. Il marchese Saverio Patrizi ha scoperto pure una piroga in mezzo alle rocce, probabilmente un oggetto votivo, anch’essa conservato al Museo Pigorini.

Ed è sempre Saverio che decise di terrazzare la parte scoscesa del Castello cinquecentesco, la cui entrata è nella piazza del borgo, davanti alla piccola Chiesa di Santa Croce in cui è custodita una reliquia della Croce di Cristo.

Il Castello è fornito di un magnifico giardino all’italiana, con la fontana circolare e le siepi dai magici disegni geometrici: una sede ideale per programmare eventi di vario genere dal sapore davvero particolare, con la vista che spazia dalla tipica macchia mediterranea della tenuta di famiglia all’azzurro del mar Tirreno, con cui il Castello da sempre ha uno stretto rapporto.

Era da qui infatti che veniva dato l’allarme verso Ladispoli in caso di avvistamento di navi pirate. Mentre ora lo scenario è tale da rendere d’incanto qualsiasi cerimonia vi si voglia organizzare (castellodelsasso.it).