FORMAGGIO DI FOSSA, MITO … E ABBINAMENTI PERFETTI
Roncofreddo e tutta l’area collinare cesenate è densa di tradizioni plurisecolari e antiche leggende. Rilievi, castelli, distese di vigneti e olivi, ma anche borghi, crinali e corsi d’acqua, ognuno con una sua storia, memoria indelebile di vicende che hanno segnato questi territori e riportano ad epoche lontane, come quella che narra del torrente Pisciatello o Urgone, che potrebbe essere il celeberrimo Rubicone, della frase ‘Il dado è tratto’, pronunciata da Giulio Cesare, il 10 gennaio del 49 a.C. mentre insieme alle sue 11 legioni, guadava quel fiume. Il toponimo Ronco, deriverebbe invece dal latino Runcus, ‘terreno divelto’, che unito all’aggettivo ‘freddo’, nel Medioevo darà il nome a Ronco Frigido, località posta a guardia dell’Alta Valle del Rubicone, oggi chiamata Roncofreddo. Un territorio conteso, prima sottoposto alla giurisdizione della Chiesa e al comune di Rimini, poi possedimento imperiale, appartenuto alla signoria dei Malatesta, ai Borgia, alla Repubblica veneta, agli Alidosi, agli Spada, prima di essere usurpato dalle truppe napoleoniche e passare nuovamente al dominio pontificio, che ne guiderà il destino, fino all’Unità d’Italia. È quella Romagna ‘Mai senza guerra’, di cui scriverà Dante nell’Inferno della Divina commedia, che sarà menzionata anche nei Cantos di Ezra Pound, dopo che il poeta americano nel 1923 venne a Cesena e conobbe le sue colline e lo splendore della Biblioteca Malatestiana, dedicandosi a uno studio su Sigismondo Malatesta. Un territorio che nel corso del Secondo Conflitto giocherà un ruolo di primo piano, in particolare tra il settembre e l’ottobre 1944, quando il comando alleato, una volta liberata Rimini, si attesterà sulle rive del Rubicone tentando a più riprese di sfondare il nuovo fronte di difesa tedesco e la Linea Christa. Gli inglesi punteranno a Savignano, Borghi e Roncofreddo, mentre le truppe neozelandesi e greche attaccheranno Bellaria e i canadesi San Mauro Pascoli, incontrando le difficoltà dettate dal maltempo, che ingrossava i fiumi e rendeva il terreno impraticabile, fino al 5 ottobre, quando le truppe indiane della 10a divisione entrano a Sogliano, la 25a brigata il 10 ottobre libera Roncofreddo e la 46a divisione britannica prende Longiano, rompendo una volta per tutte il fronte della Linea Christa.
Storia, ricordi indelebili, tradizioni, ma anche gastronomia, che da queste parti è densa e può contare su un caposaldo assoluto come il formaggio di Fossa. Tra i suoi più autorevoli ambasciatori Renato Brancaleoni della ‘Fossa dell’Abbondanza’, selezionatore e stagionatore di lungo corso, considerato un riferimento per l’universo caseario della penisola. Uno dei grandi nomi del formaggio, con riconoscimenti internazionali di ogni ordine e grado, come la medaglia di bronzo conseguita nel 2007 ai campionati del mondo del Bocuse D’Or-International Caseus Award a Lione; o come il primo posto nel 2010 al concorso «Infiniti blu» nella città di Gorgonzola. Pratiche antiche e metodologie consolidate che da qualche anno a questa parte Renato, condivide con la figlia Anna, riconosciuta per le straordinarie capacità olfattive e un naso e un palato di rara finezza, a cui si aggiungono le due nipoti Cecilia e Matilde, grandi appassionate fin da piccole di formaggi e possibili continuatrici dell’attività di famiglia. “Nasce tutto con l’attività che aveva mio padre e prima di lui mio nonno e il mio bisnonno, una classica bottega di campagna in paese, dove vigeva la legge del baratto e i contadini portavano le uova e il formaggio, scambiandoli con qualcos’altro” racconta Brancaleoni. “Iniziai da ragazzino a selezionare i formaggi, imparando da mio padre, la sua abilità che poi divenne la mia, consisteva nel riuscire a esprimere un giudizio critico sul prodotto, esaminandolo, annusandolo, ma senza assaggiarlo, non si potevano aprire le forme di formaggio, i contadini ne portavano due o tre e noi dovevamo valutare quale fossero le più adatte all’invecchiamento e se per caso non passavano il vaglio, venivano consegnate al mercato e al negozio, per essere consumate fresche”. È l’esperienza che suggerisce all’affinatore se una forma è adatta o meno alla stagionatura, lo si capisce formulando un esame attento dell’aspetto esteriore e dei profumi intensi che emana il formaggio, cogliendo le eventuali imperfezioni che potrebbero compromettere la stagionatura. Le fosse sono cavità a imbuto scavate a scalpello sotto alle abitazioni, venivano usate per conservare il grano fino al raccolto dell’anno successivo, ma non solo. Nei secoli scorsi divennero anche un rifugio, dove nascondere le cose più preziose della famiglia o per sfuggire ai briganti e nel ’44 per scampare ai tedeschi, che rimasero un mese a Roncofreddo, mentre gli Alleati bombardavano. La fossa veniva chiusa con un coperchio di legno e poi pavimentata in modo da costituire un nascondiglio invisibile. Terminato l’assedio veniva riaperta e recuperato quanto nascosto. “Nel 1992 decisi di riattivare la vecchia fossa paterna che era stata disattivata nel frattempo, destinandola ad altro, era ferma dall’immediato dopoguerra, durante il conflitto, con i tedeschi in paese, la mia famiglia si era rifugiata in una grotta insieme a tanti altri. Una volta terminata la Guerra e iniziata la ricostruzione, per evitare spese di trasporto le macerie erano finite nella fossa, ma io negli anni ‘85-‘90 l’ho sgomberata e l’abbiamo pulita e riattivata. Abbiamo fatto il primo test, con una piccola quantità di formaggi, si sono riattivate totalmente le muffe perché ogni fossa ha una propria carica batterica. Alcune muffe sono legate al tipo di paglie che io metto all’interno e sono legate anche al tipo di terreno. Ho due fosse che risalgono al 1300, erano fosse granarie e sono distanti 60 centimetri l’una dall’altra, ma la composizione del terreno è leggermente diversa, la piccola è arenaria pura 100%, la fossa madre ha una vena d’argilla, ci mettevamo il grano e quando il raccolto era abbondante si riempiva sia la fossa madre che la fossa piccola, che era di rinforzo”.
È un ambiente ideale per stagionare il formaggio, lo conserva ma influisce anche nell’evoluzione dei sapori grazie alla carica sulfurea e alla composizione minerale del terreno, il formaggio che stagiona nella fossa piccola è leggermente più delicato, più elegante. Quello della fossa madre è più carico, ha un sapore più forte. La differenza del terreno che in enologia incide sul vigneto, in questo caso influisce sugli umori del formaggio. “Ecco il nostro segreto, ogni fossa ha la sua personalità e ogni formaggio è diverso dall’altro, vale anche per il Parmigiano, 400 produttori hanno 400 formaggi diversi, grazie anche all’animale che trasforma il foraggio in latte e alla mano dell’uomo che trasforma il latte in formaggio”. Uno studio, fatto dall’Università di Bologna, Facoltà di Agraria Cesena, ha analizzato il comportamento della fossa. In assenza di ossigeno si sviluppa una carica batterica anaerobica, che incide sui sapori generati grazie al terreno. Lo studio dice che al momento dell’infossatura la carica batterica è 100, ma al momento della sfossatura, da 100 scende a 30, perché ritorni a 100, occorre favorire la rigenerazione batterica e alla fossa servono 8 mesi di riposo. “Storicamente Il periodo di infossatura coincideva con il periodo della trebbiatura, che era mezza estate, così la paglia aveva il suo sapore, è importante l’infossatura con le paglie fresche raccolte sul campo, è un rituale che va rispettato, è fondamentale, meglio una sola infossatura, quella canonica, dal 1° agosto a metà novembre”. Il Fossa è un formaggio antico, nasce nella valle di Rubicone e il primo documento custodito alla conservatoria dei registri di Rimini, ci conferma che risale al 1487. La tradizione vuole che la stagionatura in fossa con il 98% di umidità, si protragga per 90 giorni, gli esperimenti fatti con stagionature più lunghe, hanno dimostrato che il sapore cambia, si snatura, perde quell’equilibrio, diventa più forte, più piccante. “Fino agli anni ‘90 chi portava il formaggio in fossa erano i contadini e il latte era vaccino, poi le campagne si spopolano, arrivano i pastori dalla Sardegna e oggi qui si fa del pecorino, ma lavoriamo anche formaggio di capra, di pecora, di mucca e formaggio misto, la conoscenza del territorio fa si che scegliamo i produttori che li sanno fare meglio e più naturalmente, poi entra in gioco la stagionatura. Il Fossa è vivo e ha una sua complessità, basta un niente per scompensare quell’equilibrio che lo rende straordinario”. La stagionatura è una sola e nelle degustazioni viene abbinato ad altri pecorini di diversa natura, in modo che emergano le diversità, mentre in cucina si rivela duttile e di personalità. Può andare su una pasta asciutta, preferibilmente con i gnocchi di patate al pomodoro, oppure nelle paste ripiene tipicamente invernali, come il cappelletto di magro, senza carne ne verdure, con un ripieno di Fossa, ricotta vaccina e Parmigiano, ma si sta scoprendo anche il pesce, un bel piatto di spaghetti alle vongole, con una spolverata di Fossa è un’esperienza sopraffina.
Il procedimento: la prima stagionatura, che dura circa 100 giorni, avviene parte in cella e parte in ambienti aerati. La seconda intorno a metà luglio, mettendo nella fossa paglie fresche di trebbiatura, che profumano di estate e di grano. Ai primi di agosto si mette il formaggio nelle sacche di cotone vergine e si calano i sacchi nella fossa sistemandoli meticolosamente fino al suo totale riempimento. In quel momento la temperatura della fossa è intorno ai 18 c° con un’umidità superiore al 90%. Terminato il riempimento si posa il coperchio di legno e si procede alla sigillatura, creando una colla di farina e aceto, che insieme a carta paglia consente la sigillatura totale. Da questo momento il formaggio inizia il suo processo di maturazione in assoluta assenza di ossigeno, fermentando la temperatura sale, il formaggio si ammorbidisce e per compressione, inizia il suo processo di deformazione con relativa perdita di peso (siero e grasso). Al termine della fermentazione il formaggio comincia a riposare per ritornare lentamente alla temperatura iniziale, mentre i suoi umori si uniscono a quelli minerali, sulfurei, fungini, tipici dell’habitat. Dopo circa 100 giorni di vita al buio, il formaggio viene riportato alla luce il 25 novembre durante la Festa di Santa Caterina.
PAIRING
Ed ecco tre etichette che ho trovato particolarmente adatte a valorizzare il formaggio di Fossa, una specialità casearia artigianale che rappresenta un unicum nel panorama dei formaggi italiani e si caratterizza per il colore chiaro e i sentori minerali e terrosi, di zolfo e pietra focaia.
VIGNE A PORRONA TENUTE FOLONARI
Montecucco Sangiovese Docg
Cinigiano, in provincia di Grosseto, antico feudo di Oberto Aldobrandeschi, un nobile annoverato da Dante, nel Purgatorio della Divina Commedia. Una località dell’entroterra maremmano, che apparterrà a Siena e più avanti ai conti di Battifolle, fino al XVI secolo, quando divenne parte del Granducato di Toscana. Un territorio dalla forte tradizione agricola, tutto macchia mediterranea, pascoli, foreste di castagni, vigneti, oliveti, tra la Val d’Orcia, la Valle dell’Ombrone e il Monte Amiata, sede della Tenuta Vigne a Porrona, gioiello della famiglia Folonari, che ha nel Montecucco Sangiovese Docg una delle sue etichette di punta. Se ne può scoprire la storia e la connotazione agricola, visitando il piccolo museo della vicina Monticello Amiata, realizzato nell’abitazione di una famiglia di fine ‘800, con arredi tipici, la cucina, le camere, il frantoio, il pozzo, la cantina, la stalla, gli attrezzi per la raccolta del miele, la trasformazione delle castagne e dell’uva. La tenuta, non distante dal mare, si estende per 25 ettari, su rilievi intorno ai 350 mt., con suoli minerali ben ventilati e clima temperato, a favorire l’ottimale maturazione delle uve Sangiovese (con cui si realizza anche un fragrante Morellino di Scansano), insieme ai vitigni internazionali Merlot, Cabernet Sauvignon e Syrah. Un Montecucco Docg di carattere, realizzato con uve Sangiovese in purezza, che si originano con impianto a cordone speronato basso, su terreni argillosi di medio impasto, ricchi di scheletro. La vinificazione, si protrae con fermentazione in acciaio e macerazione per 4 settimane, a cui seguono 24 mesi di maturazione in tonneau di rovere tostato francese e affinamento in bottiglia. Un grande classico, con un tannino avvolgente e pieno, che rivela identità territoriale, struttura, acidità e complessità aromatica, insieme a un notevole indice di piacevolezza e a una netta predisposizione all’invecchiamento, che lascia intuire un interessante evoluzione. Naso con lievi accenni floreali, sentori di elicriso, rosmarino, piccoli frutti a bacca rossa, legno, macis. Bocca fresca, piena, calda, possente, con note di mora, ciliegia matura, prugna e una bella persistenza.
tenutefolonari.com
BARBERA D’ALBA DOC TENUTA CARRETTA
Tenuta Carretta è a Piobesi d’Alba, nel Roero, dove Edoardo e Ivana Miroglio ne conducono le sorti insieme ai figli Marta e Franco. 80 ettari di proprietà dedicati alla viticoltura sostenibile, che si estendono anche nelle Langhe, puntando a vendemmie manuali, pressature soffici e macerazioni bilanciate, con il preciso obiettivo di cercare l’armonia produttiva e gustativa. Tenuta Carretta è molto antica e risale al 1353, quando ne era proprietaria la nobildonna albese “domina Careta”, si legge in un atto di compravendita di terreni rinvenuto nell’archivio dei Conti Roero di Guarene. Nel 1811 la proprietà andrà ai marchesi Damiano, ai Conti Roero, nel 1939 alla famiglia Veglia, fino al 1985, quando la famiglia Miroglio, ne acquisisce la titolarità, puntando sulla sostenibilità ambientale, che è parte integrante della filosofia aziendale e si riverbera sia in campagna che in cantina. Un brand che punta all’ottenimento di vini di livello, dove piacevolezza e rispetto del territorio vengono al primo posto, ponendosi obiettivi ambiziosi, ma valorizzando le competenze, la professionalità e le individualità di ciascuno. Tra le loro etichette più interessanti la Barbera d’Alba, un vino che nasce sulla parte sinistra del fiume Tanaro, su suoli sabbiosi, calcareo-argillosi, soffici, permeabili, costituiti da arenarie di origine sedimentaria, che ebbero origine dove si trovava l’antico mare Padano, durante la fase Pliocenica dell’Era Terziaria. Le uve vengono sottoposte a macerazione per circa 10 giorni, lasciando il mosto a riposare in vasche d’acciaio per 6 mesi e infine affinando 4 mesi in botte e 12 mesi in bottiglia. Il risultato è una Barbera di soddisfazione, succosa, invitante, rotonda, con una buona acidità e non tanto tannino. Naso dai profumi floreali e vinosi, con sentori di frutti di bosco. Bocca intensa, armonica, elegante, piena, vellutata, persistente, con note di ciliegia Moretta, ribes nero e lievi speziature. Una bottiglia da conservare, per gustarla anche dopo sei-sette anni, con il tempo potrà solo migliorare.
tenutacarretta.it
APERTURA COLOMBO VINO
Pinot Nero Piemonte Doc
Bubbio, borgo astigiano abbarbicato sui terrazzamenti che guardano la Val Bormida, dove trenta milioni di anni fa c’era il mare, antico possedimento dei Liguri e in seguito colonia Romana, con il toponimo che riporta a Bubius, il comandante romano che nel 173 a.C. conquistò quei territori e a Bivium, a rimarcare quell’importante crocevia tra le valli Bormida e Belbo. A protezione dello storico borgo, la Torre di Ponente, unica vestigia del maniero duecentesco superstite, dopo l’invasione spagnola del 1639. A pochi minuti Cascina Colombo, virtuosa realtà vitivinicola immersa nella Langa Astigiana, che dal 2003 vigila sul territorio. Dieci ettari di vigneti tutti vicini fra loro, votati a pratiche attente al territorio, focalizzate alla valorizzazione del Pinot Nero, dello Chardonnay e dell’Alta Langa, grazie a vigne vecchie di ottant’anni impiantate una decina di anni fa, sfogliando con criterio e inerbando per conferire solidità al terreno, in luogo della collaborazione competente e rigorosa con l’enologo Riccardo Cotarella. Il microclima si avvale di benefiche escursioni termiche, brezze che favoriscono l’asciugatura dei grappoli, suoli leggeri di marna, sabbia e argilla, insieme a grande precisione in campagna e in cantina, con una particolare attenzione al Pinot Nero, vitigno straordinario, ma che richiede grande attenzione. Tra i vini di punta del brand, il Pinot Nero Piemonte Doc ‘Apertura’, uno dei gioielli di casa Colombo. Si origina su rilievi intorno ai 300 mt. e vinifica per macerazione a freddo sulle bucce per 5 giorni, fermentando in contenitori di acciaio termoregolati, rimanendo per un anno in grandi botti di rovere e tonneaux, completando l’affinamento dopo un periodo mediamente lungo in bottiglia, che contribuisce a quell’equilibrio che è la sua cifra stilistica. Un’esperienza sensoriale di notevole piacevolezza che inizia con un naso di fiori di campo, lampone, pepe nero, rosa, liquerizia, vaniglia. E una bocca fresca, minerale, intensa, verticale, con un frutto molto espressivo, un tannino elegante e teso, lievi note speziate e un’intrigante lunghezza.