CHEESE 2023, DIETRO IL FORMAGGIO
Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo: prati incrostati di sale che le maree di Normandia depositano ogni sera; prati profumati d’aromi al sole ventoso di Provenza; ci sono diversi armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli…
Ce lo ricorda, con la solita acutezza, Italo Calvino in Palomar ed è stato il principio ispiratore dell’edizione 2023 di Cheese, l’evento internazionale dedicato ai formaggi artigianali e naturali organizzato da Slow Food a Bra a metà settembre che ha posto in primo piano “il sapore dei prati” e la biodiversità.
Che sapore hanno i prati, il luogo di inizio di ogni formaggio, e perché è importante tutelarli? Il prato stabile è un’area di vegetazione spontanea, ricca di biodiversità, non seminata né arata, ma gestita dall’uomo con sfalci periodici allo scopo di produrre fieno o destinati al pascolo del bestiame che può garantire benessere animale, fertilità dei terreni, tutela della biodiversità e del paesaggio. Nei prati stabili si esprimono al meglio la collaborazione fra natura ed esseri umani e l’equilibrio fra rispetto dell’ambiente e produzione alimentare. I prati sono inoltre preziose barriere al dissesto idrogeologico e all’avanzare di una boscaglia di rovi che amplifica gli incendi, oltre che utili serbatoi di carbonio. Dal latte degli animali alimentati al pascolo provengono prodotti latteo caseari impareggiabili dal punto di vista organolettico e nutrizionale, rispettosi del benessere animale, della salute e dei territori.
Tutelare un formaggio … e un prato, “non è solo tutelare un formaggio ma è un atto politico” afferma la Presidente di Slow Food Italia Barbara Nappini durante l’inaugurazione di Cheese, perché si traduce nel “salvare dall’estinzione una razza animale, preservare una tecnica produttiva, portare avanti una tradizione casearia, salvaguardare un prato stabile o ripristinarlo, difendere territori fragili sia dal punto di vista ambientale che sociale, significa (R)esistere. Esistere controcorrente. Una (R)esistenza che talvolta rappresenta la ragione per restare a vivere in aree marginali, è l’incentivo per cui vale la pena tenere aperta una bottega o un’osteria, è il motivo per cui certe terre vengono scoperte e visitate”. Difendere un formaggio “significa difendere territori, comunità, paesaggi, cultura identitaria”, in una nazione come la nostra dove le aree interne collinari e montuose, ossia quelle a maggior rischio di abbandono, rappresentano il 70% del territorio, e riconoscere il valore del prezioso lavoro svolto dai pastori, come sottolinea il fondatore di Slow Food, Carlo Petrini “di cura dell’ecosistema e di rivitalizzazione delle zone impropriamente dette marginali”.
Queste riflessioni hanno animato per quattro giorni la manifestazione, insieme a conferenze (su transumanza, montagna, stalla etica, terre abbandonate e ricambio generazionale, turismo enogastronomico nei contesti rurali), percorsi sensoriali, degustazioni, attività educative per bambini, proiezioni e concerti serali, apéro sur l’herbe e cene. Fra gli appuntamenti che hanno trasformato la didattica in occasioni di condivisione di saperi hanno avuto un ruolo di primo piano i Laboratori del Gusto, ospitati sia a Bra sia nella Banca del Vino di Pollenzo per esplorare squisitezze e abbinamenti anche inconsueti. In uno di questi, il taglio di una rara forma di Storico Ribelle in stagionatura dal 2012 è stato l’occasione per ricordare la storia di resistenza di questo formaggio di montagna. Prodotto esclusivamente nei mesi estivi in alpeggio da latte di vacca bruna alpina e capre autoctone e realizzato con strumenti e metodi manuali antichissimi, è oggi un simbolo dello scontro epocale tra profitto da una parte e cultura e ambiente dall’altra, dove la ribellione è diretta contro l’allargamento eccessivo delle aree di produzione e la concessione dell’uso di mangimi industriali. È la biodiversità dell’ambiente montano a conferire caratteristiche organolettiche uniche alle forme di Storico Ribelle prodotte nei 12 alpeggi del Consorzio di Salvaguardia, da sempre caratterizzate nella marchiatura dalla dedica a chi le prenota. Una scelta coraggiosa quella del Ribelle, che paradossalmente paga la fedeltà alla tradizione con l’impossibilità di utilizzare il proprio nome originario, facendoci comprendere come sostenere queste pratiche rappresenti un modo per salvare la storia e l’identità dei nostri luoghi. Un laboratorio sui Salumi alternativi, prodotti non dal suino ma da altre specie animali come Pitina di capra delle Valli a nord di Pordenone, Prosciutto cotto di Agnello sambucano piemontese, Carne cruda di Vacca Grigia Alpina del Trentino, Bresaola di cavallo in passato molto diffusa soprattutto nel Lazio, ha mescolato scoperte di sapori e riflessioni. Sul ruolo fondamentale di questi insaccati nella promozione della pastorizia e delle aree marginali, valida alternativa alla cerealicoltura industriale. Quel che non mangia la mucca è cercato dalla pecora, la capra mangia tutto il resto e quel che proprio non mangia lei fa gola al cavallo, chiudendo così il cerchio del prato che si rinnova.
Altre interessanti degustazioni hanno affratellato i formaggi a grappe, distillati, birre e vini passiti pregiati prodotti in piccolissima scala come lo Sciacchetrà delle Cinque Terre proposto nello spazio della Liguria con Slow Food La Spezia Golfo dei Poeti. Il Parmigiano Reggiano ha rivelato la propria versatilità abbinando stagionature di 18, 36 e 60 mesi a cocktails a base di Tequila di gusto sapido, classico e affumicato, avvolgendo i partecipanti in nuvole di profumi lattici e di brodo di carne, eteree note vegetali, iodate e di frutta secca, sapidità umami, speziate e torbate.
Ogni regione presente a Cheese ha portato storie e narrazioni ricche di pathos. L’Abruzzo ha raccontato il ruolo esclusivo delle donne nella produzione del Pecorino di Farindola, storicamente chiamato il “formaggio delle donne”, perché sono loro a tramandarne i segreti da una generazione all’altra, ma non ha dimenticato il cibo simbolo della transumanza, gli arrosticini, inventati dai pastori per consumare le carni, meno tenere, delle pecore più anziane, con una dimostrazione pratica della composizione del “cibo di strada” nel quale quadrotti di carne alternati a lardo si infilano nei rametti di sanguinella intagliati per poi essere arrostiti e gustati accompagnati da vino Montepulciano d’Abruzzo, ma anche cacio, miele e pane del pastore (o del brigante).
Il Parco Nazionale dell’Aspromonte, con Slow Food Reggio Calabria e Slow Food Calabria ha fatto conoscere le piccole grandi storie delle comunità locali che ruotano intorno alle “forme del latte”, delineando il ritratto di una Calabria di “restanza”, non sempre facile ma autentica e intensa. Protagonista di una di queste narrazioni la musulupara, oggetto grazioso al pari di un manufatto d’arte bizantina che invece è uno stampo per formaggio. Intagliato nel legno, la sua sagoma dal profilo femminile era donata alle promesse spose e usata in Quaresima per modellare il formaggio musulupa con il quale cucinare una frittata della festa a più strati infarcita anche di salame e finocchietto selvatico. A Cheese l’ha cucinata Giovanna Quattrone, protagonista con il marito Marcello Manti di una bella vicenda di (r)esistenza nel proprio ristorante-museo Il Tipico Calabrese in quel di Cardeto in Calabria. Sforzi volti a conservare l’identità dell’Aspromonte e condivisi dall’azienda agricola Ceramida che, là dove l’Aspromonte tocca il mare, vicino allo Stretto di Messina, produce vini di qualità, soprattutto Calabrese Nero e Zibibbo nati dal recupero di terreni terrazzati abbandonati, ma si impegna anche a far riscoprire la Costa Viola, i suoi sentieri panoramici e la vite ad alberello poggiata sui muretti a secco.
Colazioni col produttore, approfondimenti e Personal Shopper cosmopoliti sono stati proposti dall’Università di Scienze Gastronomiche (UNISG) di Pollenzo, per gustare a tutto tondo i prodotti presentati dagli stessi casari e artigiani che li realizzano. Come marmellate e gelatine dell’Azienda agricola Antea nel torinese, dove una giovane coppia coltiva e raccoglie piccoli frutti, fiori ed erbe officinali compiendo ogni anno un passo ulteriore nella realizzazione dei propri sogni fra imprenditorialità e artigianato, il pane del panificio indipendente Brisa di Bologna che dal 2015 realizza pane a pasta madre con i cereali della propria azienda agricola e collabora con altri agricoltori per contrastare la perdita di biodiversità dei semi e dei prodotti, i biscotti e la torta Gagliaudo dei ricettari di famiglia della pasticceria Mamù, dove mamma e figlia scelgono solo prodotti del Monferrato alessandrino, le tisane biologiche di Wilden.Herbals che riscopre antichi rimedi e li adatta alle esigenze moderne proponendo tisane e bevande naturali dal sorso elegante e delicato, il cannolo dell’Antica Focacceria San Francesco di Palermo, termine di paragone per qualunque altro cannolo, farcito a mano al momento da Antonio Conticello mentre il padre racconta gli ingredienti: crema di ricotta di qualità arricchita da scaglie di cioccolato fondente, spolverata di zucchero a velo e infiorettata da arancia candita. Sul far della sera, l’aperitivo con gli ex alunni dell’UNISG ha visto sfilare un tris di Wagyu, la carne giapponese con la sua affascinante storia di qualità assoluta raccontata con verve da Paolo Tucci fondatore dell’azienda Meat Japan specializzata in allevamento sostenibile di bovini wagyu a Kyoto, piacevolmente stemperato da un drink analcolico a base di aceti artigianali biologici e alternato alle sapidità decise dei formaggi a pasta filata portati da Serena Di Nucci e prodotti nel suo caseificio nell’Alto Molise.
Fra gli approfondimenti proposti dalla UNISG, interessante la storia della Kornmehl Farm, fulcro della produzione casearia caprina di Israele fondata nel 1997 da Anat e Daniel Kornmehl, giovane coppia di agronomi che sceglie di stabilirsi nel deserto del Negev, in Israele, avviando una fattoria con allevamento di capre, caseificio e piccolo ristorante. Quattro figli e due decenni dopo, raccontano in Italia i loro formaggi, risultato dei saperi acquisiti in Europa e in Israele dove Daniel è stato allievo del maître fromager Shai Seltzer, celebre per la produzione e l’affinamento di formaggi di capra.
“La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta” e lui è sopraffatto dalla grande varietà di tome che gli si offre, tanto che, quando arriva il suo turno di scegliere, si confonde e soccombe: “l’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balìa”. Ecco, questo pericolo a Cheese è scongiurato grazie ai servigi del Personal Shopper, uno studente della UNISG che durante la manifestazione diventa una guida, un talent scout dei casari utilissimo per scovare affinatori e piccole produzioni di qualità all’interno del Mercato italiano e internazionale di formaggi, un vastissimo parterre di prodotti vaccini, ovini e caprini che per essere inclusi devono possedere requisiti precisi: produzione a latte crudo (di proprietà o acquistato localmente da allevamenti che partecipino a progetti di filiera), con caglio animale o vegetale, da allevamenti attenti al benessere animale e a come gli animali si nutrono (con mangimi privi di Ogm). Può così accadere che uno studente della UNISG di nome Yotam Kornmhel proveniente da Israele e figlio di agronomi casari, porti i golosi alla scoperta di chicche che volentieri condividiamo con i lettori.
Ecco cinque indirizzi di casari e affinatori da andare a scoprire nei luoghi di produzione: In Molise c’è un’azienda che recupera l’antica consuetudine regionale di mescolare latte di pecora e di capra nei formaggi durante la transumanza. Il micro-caseificio si chiama Alba azienda multifunzionale e il benessere delle greggi che vivono libere alimentate in modo naturale si percepisce, intensamente, a ogni morso dei formaggi, alcuni ricoperti da petali multicolori, legati a doppio filo ai pascoli dove la biodiversità è preservata attraverso la semina di erbe e fiori utili a rendere ricchi e fertili i pascoli. Il piccolo caseificio Francesco Rabbia, vicino a Savigliano in Piemonte, dal 1890 con i suoi formaggi artigianali prodotti a latte crudo e in caldaie di rame racconta un po’ di storia di alpeggio piemontese. Tra gli assaggi, risultano notevoli sia Il Muschio, erborinato a latte vaccino oppure caprino che richiama i gusti di Carlo Magno come degli aristocratici della belle epoque, con pasta pezzata venata di blu alla quale la stagionatura dona sapore intenso e note piccanti ma eleganti nel vaccino e note intense al caprino. Storia e tradizione si esprimono anche nel Nodo del Saio, formaggio a pasta morbida bianco avorio così chiamato dalla ricetta e dall’usanza dei margari di fasciare i caci in tela di lino e appenderli al chiodo all’interno delle malghe. Fasciatura effettuata ancora oggi a mano, e riconoscibile nel tipico nostro centrale impresso sulle forme. A Santo Stefano Roero le capre di Paolo della piccola azienda agricola Pertusio pascolano libere contribuendo a mantenere equilibrio fra pascoli e boschi. Dal loro latte nascono robiole affinate nelle cantine naturali realizzate in pietra di tufo il cui microclima favorisce lo sviluppo delle muffe nobili, donando ai formaggi una complessa varietà di profumi, sapori e retrogusti, dall’acido alle note vegetali fuse nelle sensazioni vellutate al palato, ottime con un vino bianco secco ma perfette con un Moscato piemontese. Rara fortuna è assaggiare la Fontina d’alpeggio estrema, prodotta dal solo latte di alpeggio estivo sui pascoli ricchi di erbe e fiori e disponibile in piccole quantità quando le estati sono molto asciutte. Una squisitezza disponibile presso la piccola azienda di affinatura Castagna, di Raffaella Castagna nel Verbano la quale, giunta alla terza generazione, collabora con diversi casari piemontesi per ottenere “formaggi ideali” come il Camembert di capra o ai tre latti, la robiola di capra Castagnino stagionata nelle foglie di castagno legate a mano, il formaggio a latte misto dalla pasta cremosa detta Incavolata perché avvolta in foglie di cavolo e il Gorgonzola Piccante Dop Gran Riserva, prodotto da un piccolo caseificio, stagionato centoventi giorni e imperioso sul palato, dove offre tutta la sua gamma aromatica.
La fattoria Jasper Hill del Vermont negli Stati Uniti produce formaggi a latte crudo di grande eleganza impiegando il latte della propria mandria di mucche. Tutto comincia quando i fratelli Andy e Mateo, insieme alle mogli Victoria e Angie, uniscono i risparmi di una vita e acquistano la fattoria su una collina rocciosa del Vermont vicino al confine canadese che la gente del posto chiamava “la vecchia fattoria di Jasper Hill”. Era il 1998, un terzo delle aziende agricole della città aveva ormai venduto i propri bovini e la vecchia stalla della Jasper Hill non vedeva mucche da quasi 40 anni, ma Andy e Mateo Kehler immaginavano un tipo di azienda agricola diversa: un modello di allevamento di animali da latte su piccola scala che ampliasse il panorama lavorativo del Vermont e legasse la propria produzione casearia al terroir. Dopo aver ristrutturato il vecchio fienile, vi costruiscono accanto un caseificio iniziando a produrre formaggi pregiati, in stile europeo, e dotandosi poi di uno spazio di affinamento in grotta per coltivare le croste naturali talmente all’avanguardia da favorire la collaborazione con altre fattorie. Ci sono voluti cinque anni di lavoro su strutture e competenze prima di lanciare i primi formaggi sul mercato, nel 2003. Il paesaggio e la biodiversità sono considerati fondamentali dalla Jasper Hill Farm per ottenere formaggi saporiti e di qualità; perciò, le mucche brucano erbe nutrienti e numerose varietà botaniche durante il pascolo da maggio a ottobre, e in inverno vengono cibate solo con cereali non OGM e fieno secco raccolto in estati nei campi locali coltivati malgrado il clima difficile. Questo garantisce che il “sapore del luogo”, il terroir, persista tutto l’anno e sia trasmesso ai formaggi, del resto pensati anche per preservare il paesaggio da cui nascono. I loro formaggi a latte crudo si chiamano Alpha Tolman, Bayley Hazen Blue, Whitney. E poi c’è il Winnimere, un vaccino in stile francese a crosta lavata avvolta nella corteccia (raccolta nei boschi vicini alla fattoria) affinato 60 giorni. È realizzato solo in inverno con il corposo latte crudo delle mucche nutrite con il fieno e il suo gusto è un mix di cremosa complessità con sapori persistenti ma davvero molto ben bilanciati di crema pasticcera, pancetta e, per chi lo sa riconoscere, abete rosso. Un formaggio di forma rotonda da gustare in compagnia, “sbucciando” la crosta superiore e tuffandovi insieme i cucchiai.
Novità dell’edizione 2023 di Cheese lo Slowbar, regno del gustosofo Michele Carlo che ogni giorno ha reinterpretato cocktail classici ispirandosi agli ingredienti delle regioni italiane. Sono nati così Maria L’Addolorata (dal Bloody Mary) in sferzante versione pugliese con pomodoro, distillato d’uva e peperoncino, o campana con pomodoro San Marzano, gocce di colatura di alici di Cetara e buccia di limone della Costiera amalfitana, la Puglia Colada con Rum scuro passato in legno, pesche, mandorla e cin cotto da mosto di Vino Primitivo e un cocktail raffinatissimo a base di mandarino tardivo.
Al tramonto su Cheese si sono accese le luci degli Appuntamenti a tavola, dove cuoche e cuochi italiani e internazionali sono stati ambasciatori di diversi ecosistemi, tra montagna, boschi, pascoli e transumanza, dallo stellato Juan Camilo Quintero, scelto da Enrico Bartolini come executive chef del Relais & Châteaux Stella Michelin Borgo San Felice in Toscana che ha portato un distillato delle origini colombiane e del cosmopolita bagaglio di esperienze combinati a prodotti toscani e piemontesi (favolose le zucchine dell’orto con carote ai fiori di arance e caprino, molto fantasiosa la reinterpretazione del pandolce in versione salata con fegatini di pollo e frutta candita, aromatico e succoso l’agnello alla brace con cagliata, melanzane, cardamomo e mandorla) a Marc Ribas chef di Girona che attraverso la propria cucina ha presentato il progetto Ramats de Foc nato in Spagna nel 2016 dalla collaborazione di sedici produttori impegnati a proteggere, attraverso il pascolo del bestiame, la flora locale soggetta ad alto rischio di incendi provocati dalle estati sempre più aride, sino al Dîner sul l’herbe che non resterà forse la più memorabile fra le belle cene conviviali proposte negli anni da Cheese, ma che ha fatto conoscere la laboriosa preparazione della specialità sarda Filindeu (parola forse legata a “fili di Dio” con riferimento al piatto tradizionalmente servito ai pellegrini) proposta da Silverio Nanu da Nuoro e che consiste in una pasta formata da sottilissimi fili sovrapposti in strati incrociati, ricavati con notevole forza e abilità manuale da un impasto di semola di grano duro poi spezzata e cotta nel brodo di pecora e condita con pecorino fresco, e il Kemalpasa, un dolce sferico tipico della Turchia di raro equilibrio preparato con formaggio locale e salsa tahini, proposto dalla chef turca Zeynep Hande Kilic da Istanbul.
Tutte diverse seppure tutte ispirate al sapore dei prati, ogni cena si è conclusa allo stesso modo, un sorso di Vermouth, classico rimedio botanico delle nonne piemontesi nel quale nuota l’assenzio che vuole la leggenda abbia condotto alla follia Van Gogh.
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