PULEJO RISTORANTE, RICERCATEZZA SENZA COMPROMESSI
Quando lo stile definisce un luogo, quando l’accoglienza è un valore percepito, quando il carisma si misura con la maturità stilistica e la coerenza si fa soddisfazione, allora sì che ti senti nel posto giusto. Nel quartiere Prati a Roma si è vicinissimi al Vaticano e a Piazza del Popolo ma lontani anni luce dalla ressa turistica. Ci si può così concentrare sulla personalità di una proposta – quella dello chef e patron Davide Puleio – che declina in prima persona l’opulenza dei sapori del suo DNA e la definizione tecnica di analogie di gusto, in assoluti di compiutezza sensoriale.
Tra il comfort dell’interior design e le architetture che evocano i boulevard parigini che fanno capolino dalle ampie vetrate a doppia altezza, lo chef ha debuttato da solista a Roma, aprendo i battenti del suo salotto gastronomico: Pulejo Ristorante. Un luogo che trascende le schematizzazioni sperimentali-gourmet per strutturare le edizioni di una cucina fondata sulla consapevolezza dell’identità.
È sulla luce che si focalizza Davide Puleio, sull’illuminazione di abbinamenti audaci che definiscano la contemporaneità della sua romanità, sull’iridescenza di una stella Michelin tributata al ristorante L’Alchimia a Milano, che ha segnato i suoi trascorsi quanto le collaborazioni professionali a Londra e a Copenaghen. Davide Puleio ha scelto ancora Roma dopo gli esordi da ventenne nella brigata de Il Convivio Troiani, per ridefinire la metrica del gusto, tratteggiando accenti e dettagli, cesellando un menù che possa orbitare sull’istintività di una ricercatezza senza compromessi. Armonia del servizio e brio dell’ospitalità sono demandabili alla professionalità del direttore di sala Simone Cavaterra, che con precisione e vivace intuito sa farsi interprete di ogni esigenza, divulgando l’incisività di una cucina centrata e senza paralogismi.
Triglia, périgueux, cime di rapa e ricotta di bufala è un sonetto che evoca ora la bouillabaisse ora l’intingolo livornese, nei continui rimandi alle umoralità di sottobosco e clorofilliche. Carezzevole la cottura dei filetti di pesce, rivelatrice della texture identitaria.
Gamberi bianchi in antagonismo ricercato alla lingua di vitello screziata di elicriso, uno scontro tra titani che si risolve in un ologramma: la burrosa lingua rimanda alla quintessenza del gambero rosso all’assaggio, delegando ai legumi freschi di stagione le croccanti esuberanze. Un manifesto del registro anticonformista dello chef Puleio, l’evidenza di un’abilità sommatoria senza dogmi.
Milano-Roma è un viaggio andata e ritorno, un risotto mantecato ad arte che tatua al palato identità e memorie, soavemente sfumate da quella nota di safranale che si fa eco delle rose di maggio, nella fondente royale di coda alla vaccinara.
Visione e costrutti autorevoli, rotondità nei sapori architettati per farsi ricordare, come nel dessert che è emblema dell’esigenza di definire l’autocratica valenza della pasticceria in un menù che si possa definire tale. Fegato grasso, gianduia, zeste di pompelmo e gelatina di ibisco captano golosità e lussuria, nell’amabile enfasi voluttuosa che non fa rimpiangere il Tiramisù. Il valore di un dessert concepito come fosse un main course sta proprio nella sua sinergica e detonante memorabilità che sigilla l’esperienza.
Spazio al pescato e alle carni selezionate con cura, esegesi delle lievitazioni, valorizzazione delle materie prime alla luce di donanti tecniche di elaborazione. Marginale l’inserimento di vegetali ma intelligente l’affrancamento da leziose ed esasperate fermentazioni mainstream.
Due i percorsi degustazione proposti, da cinque e da sette portate, molteplici le suggestioni à la carte, cantina in evoluzione, ma non mancano già brillanti etichette ed intriganti proposte al calice.