D’ANNUNZIO, “RINUNCIAMO ALLA CERTEZZA”
Era soltanto un uomo. La consapevolezza della morte si acquattava nell’angolo più remoto del suo essere e talvolta lo stringeva in una morsa. Questa interferenza all’onda del respiro è cosa nota all’essere umano poiché si agita in sordina dentro i pozzi più fondi del suo animo sin dai tempi dei graffiti nelle caverne. L’intelligenza di Gabriele D’Annunzio era troppo fine per poterla ignorare, per scansarla dalla propria esistenza con il gesto distratto di una mano che allontana un moscerino fastidioso. No, non lo poteva fare. Perchè Gabriele D’Annunzio era un uomo, profondamente uomo.
La vita di Gabriele D’Annunzio si componeva con la bellezza e l’elevazione di un’opera d’arte, certo. Ma forse ancora più di questo, la vita di Gabriele era ferma e tenace affermazione di qualcosa. Un’affermazione talmente potente da diventare opposizione a qualcos’altro. D’Annunzio incarnava la vita che si oppone alla morte, con tutta la potenza, l’ostinatezza, il coraggio, la foga e la furia possibili. Una passione trascinante si impossessava del suo animo e del suo tempo, rendendolo un militante della bellezza. Il vezzo estetico e le sue pose bizzarre tradivano l’immagine vertiginosa di un uomo sospeso nel vuoto e afferrato alla sua roccia con la sola presa delle dita e con un desiderio di vivere che superava in forza le fibre dei muscoli più sviluppati.

Gabriele D’Annunzio
Il suo rapporto con la vita non è mai stato estraniato dal suo rapporto con la morte. Nella sua arte non c’è l’alienazione schizofrenica di chi ignora – o finge di ignorare – il problema della morte. Implicitamente era presente, quando Gabriele sceglieva con possenza le forme della vita, ed era presente anche durante le sue imprese nella Grande Guerra, spesso ideate da lui stesso in uno sprezzo incredibile del rischio. Perchè forse la morte faceva meno paura se fronteggiata a muso duro come in un duello, sotto sembianze reali, visibili e tangibili come un avversario. Almeno, in questo modo, alla morte si poteva dare una forma, un linguaggio. La si poteva trattare in un discorso e la si poteva persino affrontare, con il solo equipaggiamento della passione per la vita. Anche se acciuffato dalla morte, quella passione sarebbe rimasta con lui fino alla fine, e forse se la sarebbe pure potuta portare appresso, oltre il varco.
La morte, e la solitudine. Anche nei confronti di questa, D’Annunzio visse un rapporto controverso. Inizialmente era un uomo di mondo, dedito alle feste e alla sfrenatezza della vita pubblica. Eppure, D’Annunzio si sentiva solo, probabilmente dalla nascita. Non certo per una condizione di abbandono da parte del genere umano, s’intenda, ma per una consapevolezza netta e chiara della sua diversità da tutti gli altri. D’Annunzio aveva il terrore di essere capito. Sì, di essere capito, di essere compreso dagli uomini, dalla massa. Un atteggiamento che potrebbe leggersi come snobismo, e magari in certa parte lo era anche. Ma, in fondo, si trattava solo e ancora una volta di verità. Poichè è bene ricordarsi che “tutti” o “nessuno” hanno la medesima valenza dell’indistinto, e D’Annunzio aveva a cuore la realtà del suo essere, i confini della sua individualità che marcavano un animo speciale e un intelletto altrettanto fuori dall’ordinario.
Il segno più subdolo e asfissiante della morte forse era proprio quella mediocrità dell’epoca. Era l’insulto di una vita riformata in un letargo senza risveglio, un annichilimento dell’arte e dello spirito, una mortificazione della passione. Era un fuoco sedato per mancanza d’aria, era un desiderio rattrappito. E, con questo, D’Annunzio faceva i conti marcando la sua solitudine, e operando una cernita implicita ed efficace quanto la selezione naturale.
Del resto D’Annunzio camminò nell’alba dei poeti maledetti, di quell’onda nostalgica e malinconica di chi, percependosi diverso dalla massa, si auto esiliava in un isolamento imposto dalle condizioni di una società impenetrabile, in una sorta di autocommiserazione finalizzata all’elitarietà. D’Annunzio avvertiva la medesima separazione dei grandi poeti della solitudine, ma reagiva in maniera differente. Lui non si estraniava dalla vita, lui ci entrava come uno speleologo nella grotta più profonda e ostile della vallata, con l’obiettivo di inondarla di luce. Gabriele D’Annunzio voleva – e riuscì ad essere – un ponte reale fra i propri ideali e la gente comune, un punto di sutura fra lo spirito dell’uomo e la sua carne. In una magia che fu solo sua, D’Annunzio riuscì al contempo a staccarsi dal mondo e ad influenzarlo profondamente, similmente a un rivoluzionario. Uno di quelli che non hanno più avuto emuli nella posterità.
Soltanto quando giunse al Vittoriale, sulle sponde del Lago di Garda a Gardone Riviera, D’Annunzio abbassò definitivamente la serranda in fronte al resto del mondo. Lo fece senza lo schiaffo di una porta che si chiude con violenza, ma piuttosto con la delicatezza di due lembi di tenda che si accostano, offuscando i contorni e proteggendo un qualche tipo di raccoglimento.

Laghetto delle Danze, Vittoriale degli Italiani
Fu qui, in questo tempo solitario, che Gabriele concentrò tutte le sfumature della sua vita, rendendo l’immensa struttura del Vittoriale degli Italiani una dimora a sua immagine e somiglianza. Ora la sua vita era qui, qui dentro. E ora poteva forse sperimentare una risposta a quelle domande che pose a Barbara, una delle sue prime amanti, in una lettera del 1888 scritta durante cinque mesi di completa clausura e dedizione al lavoro di romanziere: “Quale fascino ha mai l’arte pel mio spirito? Non sono preso io da un’infermità inguaribile? Non è vana la mia fatica?”. Per Gabriele, giunto ormai agli ultimi capitoli della sua vita, l’arte si rendeva interlocutrice massima del suo impeto, prediletta compagna di quel suo animo così incapace di invecchiare. D’Annunzio non sapeva diventare vecchio, e questo lo paralizzava: un altro segno del suo inestinguibile ardore di vivere, un altro sintomo insanabile del suo essere uomo.

Stanza Mappamondo, Vittoriale degli Italiani
Qui, al Vittoriale degli Italiani, D’Annunzio addensava il suo amore per la vita e lo trasformava in cicatrici di bellezza evidenti a tutti ma comprensibili solo a pochi, se non addirittura a pochissimi. Quella sua propensione all’armonia si intensificava nel suppellettile così come nella musica, alla quale dedica, nel Vittoriale, un’intera stanza, la Stanza della Musica appunto. Sulla finestra si reca un motto, “Igne Iunguntur Pari”, ovvero “il fuoco vi unisca come una cosa sola”. In origine riferita a due novelli sposi, questa frase entra nel repertorio dannunziano con una destinazione differente. D’Annunzio percepiva la musica oltre la sua sequenza di note. Avvertiva, in quell’infallibile strato sotto pelle che si ritrovava, che l’armonia era un inno alla vita e una beffa della matematica. Comprendeva, D’Annunzio, che in musica l’unione di due note genera qualcosa che oltrepassa di molto il semplice e consequenziale accostamento di esse. Due note non si affiancano: due note si legano, si intrecciano, si compenetrano come le folate di vento più turbolente e le fiammelle più vive e irrequiete dei falò. E generano qualcosa di nuovo. In musica, la somma di due singolarità non fa due, ma fa tre. È qualcosa che ha a che fare con la mancanza e il riempimento, con la perpetua rincorsa dell’essere a sfamarsi della vita, con l’alternanza instancabile che è fondamento dell’energia. Un’energia che Gabriele sentiva bene e a cui non voleva porre alcuna resistenza. “Io sono un uomo della vita e non delle formule” disse, durante gli inizi della sua vita politica.

Stanza della Musica, Vittoriale degli Italiani
L’eccezionalità di una vita condotta come la realizzazione di un’opera d’arte permeava ogni attimo della vita di Gabriele D’Annunzio, sia in giovinezza che in mal sopportata vecchiaia. In questa ostile dissoluzione del suo tempo, D’Annunzio rendeva eterno il suo desiderio e lo traduceva in materia, donandolo alla rada umanità complice.
Fra questa sorta di eletti, ci fu anche chi, parecchi anni dopo, mise piede per la prima volta al Vittoriale degli Italiani per raccogliere del materiale in merito a una tesi di laurea, che aveva per argomento tutt’altro. Giordano Bruno Guerri era poco più che ventenne, all’epoca. Un’età che D’Annunzio gli avrebbe certamente invidiato nel periodo più ingobbito della sua vita. Anche da morto e sepolto, Gabriele D’Annunzio riusciva a scuotere certi animi umani più predisposti alla vita, o semplicemente più affamati o voraci degli altri.

Giordano Bruno Guerri, Presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani (photo credits Augusto Rizza)
L’aria densa e impalpabile che Giordano Bruno Guerri respirò al Vittoriale gli cambiò la vita per sempre, poiché si conficcò nel suo animo come scheggia nel polpastrello. Da allora, Giordano Bruno Guerri fece ritorno al Vittoriale parecchie volte e scrisse il suo primo libro su Gabriele D’Annunzio, ‘D’Annunzio, l’amante guerriero’, pubblicato nel 2008. Fu l’inizio di una conoscenza fra le più approfondite, una di quelle in cui ci si permette di darsi del tu. Una conoscenza che portò Giordano Bruno Guerri a sedere sulla poltrona di Gabriele D’Annunzio, prendendosi cura in prima persona del Vittoriale degli Italiani, di cui oggi è Presidente. Sembra di vederci una staffetta misteriosa e invisibile in questo passaggio di consegne fra due personaggi che, pur non sovrapponendosi mai, portano in calco qualche similitudine.

Giordano Bruno Guerri, Presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani (photo credits Augusto Rizza)
A conferma di questo ben riuscito mandato c’è il successo che il Vittoriale ha raggiunto negli ultimi anni: perno di vita culturale e artistica, meta di visite assidue da parte di scuole così come di privati e turisti da tutto il mondo, luogo di contemplazione di una vita sublimata dall’arte o forse di un’arte sublimata dalla vita. Il Vittoriale degli Italiani oggi possiede l’aspetto di Gabriele D’Annunzio e le movenze di Giordano Bruno Guerri, in una mescolanza che ricorda incredibilmente l’armonia amata da D’Annunzio.

Piazzetta Dalmata, Vittoriale degli Italiani
“Io ho quel che ho donato perché nella vita ho sempre amato” diceva Gabriele, compreso da Giordano Bruno Guerri che ne scrive srotolando le sillabe criptiche dell’intera sua esistenza di poeta, di esteta, di architetto, di uomo. “Nel suo calderone esistenziale” scrive Guerri nel suo D’annunzio, l’amante guerriero “accolse e amò tutto. Il poeta del vizio e del lusso, l’amante guerriero ha conosciuto la vita per intero”.
Senza la pretesa di codificarne la vita, la lettura di Gabriele D’Annunzio scuote qualche turbolenza del genere umano, soggiogato dall’abitudine alla sicurezza, al controllo, al tepore della ripetibilità. D’Annunzio assume su di sé una forma di coraggio connotata da un certo tratto di onestà, poichè riconosce nei passi della vita umana i palmi dei piedi dei funamboli. Senza accecarsi per la paura del burrone, senza puntare le pupille all’alluce per tentare di ignorare l’altezza, D’Annunzio non ha saputo far diversamente che innamorarsi del panorama, procedendo al solo ritmo del proprio respiro creativo e invitando tutti, sé per primo, a qualcosa che andava in assoluta controtendenza: “Rinunciamo una buona volta alla certezza!”.