FATTORIA DEI BARBI, GOCCE DI STORIA
Ad avvicinarsi alla grata che protegge una porticina seminascosta, si sente il profumo della storia. È la cella delle magie di Fattoria dei Barbi, gli scaffali impolverati con bottiglie senza tempo (un’etichetta recita 1870 addirittura). Esiste una sola chiave per aprirla, e una sola custode: Francesca Cinelli Colombini, madrina del Brunello di Montalcino che a partire dagli anni ’80 ha lasciato le redini al figlio Stefano (“devo ancora chiederle il permesso, se voglio aprirla” dice lui). Sono gli ultimi esponenti di una famiglia che calca questi terreni da quasi settecento anni: li ha visti evolversi e ha contribuito alla loro ricchezza. Il vino è una frazione importante, ma non certo l’unica della cultura di una comunità oggi famosa nel mondo.
Non basterebbero tre notti e tre giorni per ascoltare tutto quello che ci sarebbe da dire. Ed è forse in questo grondare storia e storie che risiede l’inestimabile valore dell’azienda, produttrice di Brunello dal 1892 e proprietaria di trecentoventicinque ettari (di cui ottantasei di vigneto, per circa settecentomila bottiglie l’anno, poi oliveti, seminativo e boschi) tra Montalcino e la tenuta Aquilaia dei Barbi a Scansano (GR). “Montalcino ha un’anima di innovazione, perché abbiamo coscienza di quello che siamo. Per fare grandi cose, come quelle che abbiamo iniziato a fare noi più di un secolo fa, serve comprendere sè stessi, il territorio, il mercato“. Dai dettagli alle rivoluzioni.
Il nonno di Stefano, Giovanni, fu esempio di questa mentalità: “Un personaggio illuminato, intuì per primo l’importanza di trasformare l’azienda da semplice fattoria (si allevava bestiame) a luogo di visita“. Nel 1949 la cantina di Fattoria dei Barbi fu aperta ai visitatori, la prima in Italia: oggi conta cinquemila metri quadri, lastricati di foto d’epoca e dagherrotipi che raccontano la famiglia e la vita in vigna, in bianco e nero. “Se guardi i loro occhi, soprattutto comparando prima e dopo la guerra, lo capisci subito. Non si aveva granché, ma si era felici“.
Montalcino fu punto chiave, molto prima, per lo sviluppo dei commerci del Cinquecento, con l’arrivo “delle grandi ricchezze, che cominciarono a portare grandi vini. La strada per Roma passava di qui, ci transitavano aristocratici, militari, mercanti: il Brunello è nato in mezzo alle correnti dell’arte, della religione e del potere“. Nel 1688, tanto per dirne una, Guglielmo III, re d’Inghilterra, porta a corte il vino di Montalcino, che aveva scoperto viaggiando per di qui, quando ancora era solo Principe d’Olanda. E non sono affatto solo leggende: parlano i documenti che Stefano è andato a cercare da sè.
È qui che i primi codici enologici prendono vita (1890), che comincia la scienza delle coltivazioni e perché no della bellezza. Manco a dirlo, i Colombini ci mettono del proprio: la certezza sulle misurazioni e sugli ettari comincia dal 1798 con i francesi rivoluzionari che di fatto realizzano il catasto moderno. “Si contavano cinquemila ettari all’epoca, più di adesso (4.600, nda). La prima etichetta stampata del Brunello è del 1820: se ne occupò un mio avo, era professore universitario a Pisa“. È la più antica in Italia, per un vino che vince premi ovunque ma viene prodotto in piccole quantità: nell’800 il vino in generale veniva visto più come sanificatore per l’acqua difficilmente potabile, che altro.

Lo stemma dei Cinelli Colombini
I Cinelli Combini sono in realtà un pezzo pregiato e longevo di un mosaico oggi sbiadito, per quanto vivissimo soprattutto nella memoria storica di chi, come Stefano, si dedica alla conservazione e alla tradizione: “La storia è passata di qui, attraverso le case di una decina di famiglie. Siamo l’unica sopravvissuta, rimangono rami delle più longeve come i Padelletti, i Costanti. Le altre sono cambiate o estinte“. A questo retaggio imperituro, però, si affianca la capacità inestimabile di camminare allo stesso passo del tempo, a volte addirittura precedendolo: il Brunello lega dinastie secolari con tecnica raffinata, che continua a evolversi. E soprattutto ha da sempre avuto un fiuto straordinario per il commercio.
“Altre zone d’Italia hanno prodotti eccellenti da sempre, ma solo adesso vendono bene. Nel 1921, Tancredi Biondi Santi creò una cantina sociale fatta da otto famiglie di suoi parenti, noi compresi. Tutti potevano portargli le proprie uve, lui fermentava e vendeva. Ha addestrato generazioni di cantinieri, di esperti, innovando al tempo stesso il sistema economico. Poi toccò a noi per davvero, negli anni ’60 nonno Giovanni aveva necessità di vendere parecchio (all’epoca produceva centomila bottiglie, una follia), e ribaltò il mercato con agenti e rappresentanti, aumentando le provvigioni e giocando sui prezzi. Creò il vino costoso, che prima era un concetto solo francese“.
E sia chiaro, famiglia, o quello che ne deriva, vuol dire inevitabilmente anche diatribe e confronti: “Montalcino è un albero vecchio, grosso, vivo. Ogni tanto nascono rami che vanno fuori strada: nell’ultimo secolo di storia ha avuto sbandate anche decise, ma è sempre rimasto fedele a sè stesso; siamo un progetto antico, affinato nel tempo“. Negli anni ’30 per esempio, quando ancora Montalcino era sotto l’egida del Consorzio Chianti Senese, si tentò di introdurre nuove uve per la produzione (il disciplinare prevede l’utilizzo di 100% Sangiovese): “mio nonno e Tancredi si opposero, il progetto fallì. Fu riproposto a inizio anni 2000, con una votazione anonima: l’87 percento dei voti fu contro“. Ci si adatta, si combatte, ma non ci si allontana mai dai valori primari.
Perchè l’identità è un patrimonio di sterminato pregio, ed è con questa che si avanza nei secoli. Stefano lo sa e ci scherza anche: “Montalcino è conservatore nella sostanza e innovativo nella forma. È consapevole di quello che è, ma di una consapevolezza innata, anche se sembra un paradosso. Il montalcinese giovane non sa dirti perché è attaccato a questa terra, lo è e basta. Non avrebbero saputo spiegare perché, quando votarono contro l’ingresso di altre uve. Hanno scelto la tipicità al posto della qualità: si può fare il miglior vino del mondo, o il miglior Brunello. È come musica classica e musica jazz: il Brunello è musica classica. Un vino monovitigno non può essere perfetto, ma può essere il meglio di sè stesso“. E Stefano suona? “No, ascolto“.

Stefano Cinelli Colombini
Riemersi dalla cantina c’è da fermarsi all’osteria appena accanto, oppure arrampicarsi poche centinaia di metri per raggiungere un’altra perla che Stefano ha creato e curato quasi da solo. Il Museo della Comunità di Montalcino e del Brunello, uno scrigno che racconta di vino e vita quotidiana, concetti profondamente intrecciati, da queste parti. Perché senza cultura non c’è futuro.

Museo della Comunità di Montalcino e del Brunello
“La mia generazione e quella precedente hanno ricreato il mondo del vino del passato” racconta Stefano “Abbiamo sbagliato molto, tutti. Il vino è rinato grazie a persone che avevano culture diverse, ma pur sempre profonde. Mancava la tecnica, ma c’erano grande sensibilità e gusto. L’assenza di preparazione li ha spinti a fare una bischerata: hanno insistito perché i figli facessero enologia, quindi abbiamo due generazioni di mezzi tecnici, che però non hanno la cultura dei genitori. L’impoverimento culturale del settore vino si percepisce nei prodotti e nel contesto generale. Montalcino ha vissuto l’involuzione, ma ha interiorizzato il Brunello, perché il Brunello siamo noi da secoli. Gli altri vini non hanno questo, quindi nella ricerca dell’economia e della perfezione perdono l’anima“. E alla fine del giorno l’anima di questi vini, elegante, tosta, duratura, è quello che più di tutto rimane in bocca e nella mente.
DEGUSTAZIONE
Rosso di Montalcino Doc 2019
Vibrante, immediato, giovane nel senso migliore del termine. Fresco e semplice, con già intuibili note erbacee e balsamiche.
Brunello di Montalcino Docg 2016
Fedele alla storia e alle qualità della cantina e del vitigno. Etichetta blu, iconica fin dagli anni ’50, che nel colore, nel corpo e nei sentori rispecchia tutto quello che ci si aspetta e, soprattutto, si desidera dal Brunello. Solido, elegante, godibile.
Vigna del Fiore, Brunello di Montalcino Docg 2016
Il cru voluto da Francesca Cinelli Colombini per il suo cinquantesimo compleanno. Carezza floreale che non cade mai nell’eccesso di morbidezza, sorso di setosa eleganza poi tradotta in note di bosco, frutti pieni.
Brunello di Montalcino Docg Riserva 2015
L’espressione più riflessiva e al tempo stesso potente della cantina. Il legno è l’ultima venatura di una pennellata già di per sé ai limiti della completezza, che qui viene arricchita da profondità e presenza. Un vino bello, senza mezzi termini.